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Però, in questo caso avevo fatto una promessa; e poi la caviglia ancora gonfia e la forzata immobilità mi autorizzano a fare qualche eccezione ;-) (mi dovrò pure consolare in qualche modo!)
Lars Von Trier mi piace, soprattutto depurato da alcuni suoi eccessi, ed anche se non si può certo dire che i suoi film si aprano a prospettive di ottimismo.
Nel caso di Melancholia il senso di angoscia è diffuso e presente dall'inizio alla fine, in un crescendo che va di pari passo con l'avvicinarsi del pianeta alla terra, al punto tale che l'impatto appare quasi liberatorio.
Dopo una introduzione fortemente estetica (una sequenza di immagini al ralenti che sono veri e propri quadri e che riassumono in qualche modo il senso di quello che verrà), il film si articola in due parti (in successione temporale, ma con un'assoluta unità di luogo), dedicate rispettivamente a Justine (la straordinaria Kirsten Dunst) e a sua sorella Claire (Charlotte Gainsbourg).
Justine e Claire, per quanto apparentemente opposte, sono in realtà due facce della stessa medaglia, così come lo sono le due parti del film, la prima a rappresentare la dimensione sociale dell'umanità (o meglio la solitudine dell'uomo in mezzo agli altri uomini), la seconda nel mettere la solitudine dell'uomo di fronte alla natura e all'inevitabile destino di morte.
Le due sorelle si muovono in uno spazio nel quale risultano praticamente imprigionate (tanto che più volte tentano - senza riuscirsi - di superare il ponticello che porta fuori dalla proprietà); si tratta della bellissima casa di campagna dove Claire vive con suo marito John (Kiefer Sutherland) e suo figlio Leo (Cameron Spurr), circondata da boschi e da un'enorme campo da golf. Un mondo piccolo e circoscritto, un po' come quel pianeta infinitesimale rispetto alla grandezza dell'universo nel quale casualmente ci è stato dato di vivere.
Justine è l'espressione dell'angoscia della vita; mi ha fatto tornare in mente la famosa frase che Calvino scrive ne Le città invisibili: "L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme."
Il microcosmo umano rappresentato da Von Trier nella prima parte del film, quella che racconta del matrimonio di Justine, è una somma di patologie individuali, di tentativi dei singoli di sopravvivere alla durezza e all'insensatezza della vita: dal cinismo ed egoismo assoluti della madre (Charlotte Rampling) alla superficialità adolescenziale del padre (William Hurt), dall'inconsistente ingenuità dello sposo alla ferocia senza scrupoli del datore di lavoro. E non si tratta di un concentrato di umanità deteriore: è solo ciò che la sensibilità esasperata di Justine coglie intorno a sé, senza riuscire a difendersi e fino a vedere inevitabilmente spezzato il proprio fragile equilibrio psicologico ed emotivo. Justine che capisce tutto, sente tutto. Condannata per questo alla sofferenza.
Claire rappresenta invece l'angoscia della morte, quell'ansia che ci portiamo dentro di fronte all'ineluttabilità del nostro destino, quell'ansia che razionalmente cerchiamo di controllare dando ordine e senso alla nostra quotidianità, ma che facilmente viene portata alla superficie dall'inaspettato.
Claire e Justine (e forse l'umanità tutta) sono accomunate dalla consapevolezza, conscia o inconscia, dell'assenza di senso, dall'impotenza di fronte all'ingranaggio di un meccanismo la cui casualità è fuori dal nostro controllo. Ne siamo risparmiati soltanto da bambini, ma la condanna del diventare adulti ci mette di fronte a una verità che ognuno affronta come può.
Justine non teme la fine del mondo perché la sua apocalisse individuale è già avvenuta e dunque quella dell'umanità è una accettabile conseguenza; Claire non è in grado di gestire l'idea che questa apocalisse sia determinata da un meccanismo esterno che non può controllare e a cui non può sottrarre se stessa né suo figlio.
Chi è più forte?
Justine che non ha niente da perdere, o Claire che ha investito nella vita?
Il film di Von Trier ci lascia con una schermata nera che alimenta e trasferisce fuori del film l'inquietudine che lo attraversa fin dalle prima immagini.
Personalmente, non sono in grado di cogliere i numerosi riferimenti cinematografici, artistici e culturali di cui Von Trier pare disseminare il film (per questo leggete una recensione molto più intellettuale della mia).
La potenza delle immagini è però sufficiente a riportare a galla tutto quel groviglio concettuale che l'umanità ha elaborato nei secoli e attraverso le sue più diverse espressioni senza veramente riuscire a dare una risposta al senso della nostra esistenza.
A me - molto più banalmente - e non saprei nemmeno spiegare esattamente perché, Melancholia ha richiamato alla mente A single man.
Voto: 4/5
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