novembre 1, 2011Lara Marziali
Fëdor M. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, BUR, 2000, 168 pp .
Uscito per la prima volta nel 1864 in «Epocha», seconda rivista dei fratelli Dostoevskij.
Ogni scrittore ha un punto culminante da poter raggiungere, oltre il quale non può andare, Dostoevskij qui invece scende nel profondo, arrivando al centro della “nevrosi” (anche se di nevrosi non si può realmente parlare). Le prime pagine del romanzo sembrano un ritorcersi di scuse, apologie, derisione verso il lettore e sé stesso. Come se gli uomini – o perlomeno gli uomini pensati da Dostoevskij – nel loro profondo celassero stratificazioni di follia, ognuna differente all’altra, persone differenti (un pirandellismo più oscuro e subdolo) che gridano l’una contro l’altra.
Dostoevskij è l’autore che ha raccontato le “viscere” dell’uomo, perché è lo scrittore che forse più di tutti ha voluto fare i conti con il nichilismo della sua epoca – tutto i Demoni è una contestazione alle tendenze distruttive “di moda” nella Russia del suo tempo. Una Russia a metà fra l’Europa e l’Oriente, secoli indietro malgrado (o forse proprio per) le politiche di Pietro I e di Caterina II. Avendo sempre un occhio alla Francia e mezzo alla Germania, si ritrova spesso sospinta da movimenti di rivolta o di protesta: se i perché ed i come cambiano, la Russia è – nella sua storia – costantemente “minacciata” da disordini politici, settarismi in rivolta contro lo specifico accentramento di potere zarista. E forse anche in risposta alla melensaggine dei servi, degli ufficiali e dei burocrati degli uffici dostoevskijani.
Georgij Fridlender, uno dei maggiori critici di Dostoevskij, ha spesso sottolineato come i suoi romanzi siano fortemente radicati nella storia, nella sociologia e nella società della sua epoca: era per il popolo, o meglio per l’uomo russo che scriveva, con l’obiettivo preciso di contestare lo spirito del suo tempo e della sua Russia. Lukács, con un’altra visione e con altri intenti, afferma che è il fatto sociale umiliante e misero ad essere causa dell’autolesionismo psichico delle Memorie, scaturito dalla miseria della metropoli, dalla solitudine nella città e dal distacco dell’individuo dal resto della compagine sociale.
Le intuizioni nietzscheane della morte di Dio, della destituzione di un senso assoluto, della fine di un senso morale pieno di fronte alla “scoperta” dei fabbisogni psicologici degli uomini, si ritrovano ugualmente sullo sfondo dei romanzi e dei racconti dello scrittore russo, ma diversamente cifrati. Quel che in Nietzsche è intuizione che travalica i confini, in Dostoevskij è analisi che arriva al profondo.
Per questo Memorie del sottosuolo non è solo il racconto di una malattia – «io sono un uomo malato… io sono un uomo cattivo» – è l’inizio di un’indagine che porterà a Raskol’nikov, Stavrogin, Ivan Karamazov, personaggi al limite perché era la storia di quel tempo, nella visione dello scrittore, ad essere al limite: un punto di non ritorno oltre il quale solo il nulla e l’eccesso del tragico poteva sussistere.
La soluzione suggerita dai romanzi è legata strettamente ad una precisa concezione dell’uomo. Come scrive al fratello, dopo la finta esecuzione del 1849:
La vita è in noi stessi e non fuori di noi. Accanto a me ci saranno sempre degli esseri umani, ed essere uomo tra gli uomini e restarlo sempre, in nessuna sventura avvilirsi o perdersi d’animo.
In Dostoevskij, per quanto redenzione e bellezza – idee troppo complesse da spiegare in poche righe – sono le uniche possibilità di “salvezza”, è sempre l’uomo, la psicologia (nel senso più ampio) dell’uomo ad essere presente, perché si è irreversibilmente spostato il punto focale con cui gli uomini comprendono il mondo: non più Dio, ma l’essere umano. Quale uomo, poi, sarà la domanda a cui si tenta di rispondere fino ai nostri giorni. Anche per questo motivo Dostoevskij è stato preso e ripreso da quasi tutti gli scrittori moderni, come pure alcuni filosofi: alcune delle maggiori problematiche del primo novecento si ritrovano – in nuce – negli scritti dell’autore russo.
In una lettura forse più storica, e forse più decontestualizzata dal campo letterario, seguendo il ragionamento di Löwith sulla dissoluzione dell’unità europea, Dostoevskij è stato preso e ripreso da un’Europa che inizia a riflettersi nell’occhio critico della Russia e della Cina, nel momento in cui l’idea di progresso e l’idea di decadenza sembrano facce di una stessa medaglia. E la dissoluzione di un’idea d’Europa rimescola le carte. A questo proposito, Dostoevskij afferma:
L’idea di una Germania riunita è grande e superba, e sprofonda nei secoli. E pure, che cosa vuole dividere con noi la Germania? L’intera umanità occidentale è il suo oggetto, tutta la parte occidentale dell’Europa ha preso la sua decisione: al posto dell’idea romana e neolatina, qui deve assumere la guida l’idea germanica. A noi tuttavia, alla Russia, lascia l’Oriente. Si è disposto che due grandi popoli, noi e loro, cambino il volto del mondo intero. Questa non è un’invenzione della fantasia umana; non è l’umana ambizione che s’immagina ciò: così si interpreta il mondo stesso.
Bibliografia parziale di riferimento
- F. M. Dostoevskij, Delitto e castigo, Einaudi, Torino, 2005
- F. M. Dostoevskij, I demoni, Dalai editore, Milano, 2011
- F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, BUR, Milano, 2003
- R. Hingley, Scrittori e società nella Russia dell’Ottocento, Il saggiatore, Milano, 1967
- K. Löwith, Il nichilismo europeo, Laterza, Bari, 2006
- G. Lukàcs, Saggi sul realismo, Einaudi, Torino, 1950
- N. V. Riasanovsky, Storia della Russia dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, Milano, 2005
- G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Bari, Laterza, 1985
- http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/slave_0080-2557_1981_num_53_4_5178
- http://www.iisf.it/pubblicazioni/quaderni_del_trentennale/q8.pdf