La prima lettura mi aveva incantata, mentre questo secondo dialogo mi ha fatto sciogliere. Nell'Adriano di Marguerite Yourcenar e, tramite il personaggio, nell'autrice stessa, ho assaporato la descrizione del mio stesso amore per il mondo classico, una passione che contraddistinse l'imperatore e che viene resa la vera protagonista della narrazione.
Publio Elio Traiano Adriano (76-138) è celebre per il suo amore per la cultura greca, che ha avuto influenze soprattutto artistiche e architettoniche, dalla trasformazione di Roma attraverso la riedificazione del Pantheon e la costruzione del Mausoleo di Adriano (l'odierno Castel Sant'Angelo) o del Tempio di Venere, allo straordinario complesso della villa di Tivoli.
Con Memorie di Adriano, romanzo costruito in forma di una lunga lettera a Marco Aurelio, Marguerite Yourcenar tesse intorno a questa figura straordinaria una trama di pensieri e riflessioni che, pur essendo opera di fantasia, si coniugano perfettamente con l'idea della bellezza e della spiritualità del personaggio.
La Storia rimane abbastanza marginale in questo memoriale artistico, e viene evocata soprattutto in relazione alle vicende del predecessore Traiano, di cui Adiriano spera con ogni sua forza di diventare l'erede, e in occasione della rivolta di Giudea (132-135), il momento più drammatico del suo regno; essa appare come il dato conosciuto, come l'oggetto dell'annalistica che il vecchio narratore non ha bisogno di ricordare perché delle sue imprese politiche si è parlato più che a sufficienza, ed è semmai uno sfondo necessario per comprendere il bisogno di Adriano di farsi auriga delle sorti di un mondo in preda al caos che vuole consegnare ai posteri imbevuto di bellezza e armonia. Ma la pace è una conquista che definisce un'utopia forse più grande di quella speranza di immortalità che Adriano nutre verso Antinoo e verso l'impero che governa.
Ero sopraffatto da tutti i problemi dell’impero, ma il mio personale pesava di più. Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere me stesso, prima di morire. (p. 84)
Castel Sant'Angelo, in origine Mausoleo di Adriano
Roma, resa grandiosa dalle virtù degli uomini di tanti secoli, è, per Adriano, un tesoro riposto nelle sue mani per garantirne la continuità e al centro della sua riflessione stanno mille interrogativi su come permettere questo eternarsi di un dominio che sia in ogni parte espressione del suo caput.Avrei voluto che lo Stato si ampliasse ancora, diventasse ordine del mondo, ordine delle cose. Le virtù che erano sufficienti per la piccola città dai sette colli avrebbero dovuto farsi duttili, varie, per adeguarsi a tutta la terra. […] Ma qualsiasi creazione umana che pretenda all’eternità è costretta a adattarsi al ritmo mutevole dei grandi eventi della natura, conformarsi al mutare degli astri. La nostra Roma non è ormai più la borgata pastorale dei tempi di Evandro, culla d’un avvenire che in parte è già passato; la Roma predatrice della Repubblica ha già svolto la sua funzione, la folle capitale dei primi Cesari tende già a rinsavire da sé; altre Rome verranno e io non so immaginarne il volto; ma avrò contribuito a formarlo (pp. 106-107)Roma è, nel pensiero dell'Adriano della Yourcenar, l'entità che ha permesso la trasformazione dei valore di gloria, grandezza e armonia greci in una realtà concreta, quasi l'evoluzione che rende possibile il concretizzarsi del sogno antico simboleggiato da Atene. Per questo la capitale dell'impero deve attingere dall'antica potenza greca forme e ispirazione, per continuarne l'opera e diventare immortale attraverso la divinizzazione della sua madre ideale. Adriano ha un rapporto privilegiato con Atene, che torna a visitare in ogni suo viaggio verso oriente, traendo dalla sua decadenza lo stimolo per rivitalizzare tutto ciò che essa ha rappresentato e può rappresentare per i Romani.
La Grecia menava una vita grama, in un’atmosfera di grazia pensosa, di sottile lucidità, di saggia voluttà. […] A volte mi sembrava che lo spirito greco non avesse spinto sino alle sue conclusioni estreme le premesse del proprio genio: restavano da cogliersi i frutti; le spighe maturate al sole e già recise rappresentavano poca cosa accanto alla promessa eleusina del grano celato in quella bella terra. […] Intravvedevo la possibilità di ellenizzare i barbari, di atticizzare Roma, di imporre pian piano al mondo la sua cultura che un giorno si sia affrancata dal mostruoso, dall’informe, dall’inerte, che abbia inventato una definizione del metodo, una teoria della politica e del bello. […] Ma per lasciare ai Greci il tempo di continuare l’opera loro, di portarla a compimento, era indispensabile qualche secolo di pace, e gli ozi indisturbati, le libertà moderate che la pace consente. La Grecia contava su di noi affinché le facessimo da guardiani, dato che in fin dei conti pretendiamo d’essere i suoi padroni. Promisi a me stesso di vegliare sul dio disarmato» (pp. 73-74)
Era pur sempre bella, Atene, e non mi rammaricavo d’aver imposto discipline greche alla mia esistenza; tutto quel che c’è in noi di armonico, cristallino e umano ci viene dalla Grecia. Ma mi veniva fatto, a volte, di dire a e stesso ch’era stato necessario il rigore un po’austero di Roma, il suo senso di continuità, il suo gusto del concreto, per trasformare ciò che in Grecia restava solo mirabile intuizione dello spirito, nobile slancio dell’anima, in realtà. (p. 210)
Canopo di Villa Adriana a Tivoli
Questo Amor Graeciae è il risultato di un'intima comunione spirituale con l'arte, la letteratura e la filosofia del mondo ellenico, un rapporto così intenso e radicato che Adriano deve riconoscere che, pur appartenendo politicamente al mondo latino, la sua intima natura è in realtà greca:
Ho amato quella lingua per la sua flessibilità di corpo allenato, la ricchezza del vocabolario nel quale a ogni parola si afferma il contatto diretto e vario della realtà, l’ho amata perché quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco. [...] L’impero, l’ho governato in latino; in latino sarà inciso il mio epitaffio, sulle mura del mio mausoleo in riva al Tevere; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto. (p. 34-35)Inevitabilmente, però, il desiderio di perpetuare Roma, i suoi valori e la sua bellezza si scontrano con il sentimento di vanità e inconsistenza che porta a considerare come, contro ogni sforzo dell'uomo per preservarli, il tempo e il mutamento condannino anche le più mirabili opere dell'umanità all'oblio e alla decadenza. E allora, seguendo le oscillazioni dell'animo di un uomo sospeso fra la pacifica rassegnazione alla morte imminente e l'energica rivendicazione di un sogno, si alternano commosse rimembranze di un coraggioso operato a custodia del passato e profonda malinconia di fronte all'avanzata del presente e del futuro, perché, come ricorda l'imperatore, «qualsiasi felicità è un capolavoro: il minimo errore la falsa, la minima esitazione la incrina, la minima grossolanità la deturpa, la minima insulsaggine la degrada» (p. 155).
Ho ricostruito molto: e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di “passato”, coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti. (p. 121)
Fu allora che mi strinse il cuore la malinconia d’un istante: pensai che le parole adempimento, perfezione, contengono in sé la parola fine: forse, non avevo fatto che offrire una nuova preda al Tempo divoratore. (p. 166)Nella conservazione di questa nobile eredità culturale assume un particolare rilievo, per tutto il corso del romanzo, il rapporto di Adriano con i libri, che egli considera la sua vera patria, il luogo in cui si è sempre sentito a suo agio e da cui ha appreso tutto ciò che conosce:
La parola scritta m’ha insegnato ad ascoltare la voce umana, press’a poco come gli atteggiamenti maestosi e immoti delle statue m’hanno insegnato ad apprezzare i gesti degli uomini. Viceversa, con l’andar del tempo, la vita m’ha chiarito i libri. [...] Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri (pp. 22 e 32)
Pantheon di Roma
Il bisogno di preservare questo spirito educativo e quasi divino della lettura (ma anche dell'arte, l'altro grande amore di Adriano), che diventa creazione e perpetuazione del genere umano nella sua spiritualità, porta l'imperatore a convogliare sempre più energie nella costruzione delle biblioteche e nella copia dei testi, una foga che nei secoli seguenti si sarebbe spenta per emergere solo sporadicamente nel corso del Medioevo e per scoppiare con pari intensità solo con l'Umanesimo.
Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che ha molti indizi, mio malgrado, di venire. (p. 121)
Sentivo sempre più il bisogno di raccogliere e conservare antichi volumi, e d’incaricare scrivani coscienziosi di trarne nuove copie. Nobile compito; non meno urgente - pensavo - dell’aiuto ai veterani o dei sussidi alle famiglie prolifiche e disagiate; qualche guerra, dicevo a me stesso, la miseria che la segue, un periodo di volgarità e d’incultura sotto un cattivo principe basterebbero a far perire per sempre i pensieri pervenuti fino a noi mediante quei fragili oggetti di pergamena e d’inchiostro. Ogni uomo così fortunato da beneficiare, più o meno, di quei legati di cultura, mi sembrava responsabile verso tutto il genere umano. (p. 204)Adriano è, per la Yourcenar, uno spirito indomito alla ricerca dell'eternità: la propria, quella dell'umanità, quella di Roma, quella della cultura, quella dell'arte e quella del suo unico amore, il bel giovinetto Antinoo, tormentato dall'idea del dileguarsi della bellezza e dell'eleganza col sopraggiungere degli anni al punto da lasciarsi annegare nel Nilo. Il culto della giovinezza, della bellezza e dell'amore di Antinoo spiegano non poca parte dell'arte d'età adrianea, e Marguerite Yourcenar traduce questo dato in un passo molto intimo e sofferto:
Non appena egli cominciò a contare nella mia vita, l’arte ha smesso d’essere un lusso, è diventata una risorsa, una forma di soccorso. Ho imposto al mondo questa immagine: oggi esistono più copie dei ritratti di quel fanciullo che non di qualsiasi uomo illustre, di qualsiasi regina. Sulle prime, mi stava a cuore far registrare dalle statue la bellezza successiva d’una forma nel suo mutare; in seguito, l’arte divenne una specie di magia, capace di evocare un volto perduto. Le immagini colossali mi sembravano un mezzo per esprimere le vere proporzioni che l’amore conferisce agli esseri. (p. 126)
Marguerite Yourcenar (1903-1987)
Memorie di Adriano, dunque, si presenta come un elogio del desiderio di immortalità, come il grido elegante di un animo che lotta contro il tempo per affermare un amore, una ricerca di felicità e un bisogno di bellezza che non possono esistere l'uno senza gli altri.Grazie a quella che l'autrice, nei Taccuini di appunti, definisce una «magia simpatica che consiste nel trasferirsi con il pensiero nell'interiorità di un altro», le parole del vecchio Adriano si presentano come una pacata professione di prontezza all'abbandono della vita, ma trasudano una raffinata menzogna e un sincero attaccamento all'esistenza: l'arte, la cultura e la bellezza che Adriano ha tanto amato e protetto cercando di dare loro l'immortalità si sono rivelate gli strumenti che hanno garantito a lui quella stessa eternità.
TRAHIT SUA QUEMQUE VOLUPTAS: ciascuno la sua china, ciascuno il suo fine, la sua ambizione se si vuole, il gusto più segreto, l’ideale più aperto. Il mio era racchiuso in questa parola: il bello, di così ardua definizione a onta di tutte le evidenze dei sensi e della vista. Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo.C.M.