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Memorie libiche. Grande grande famiglia.

Da Suster

Lo so che sembrerò ripetitiva, che ne ho già parlato e riparlato, ma questo della famiglia è stato in effetti l'aspetto più significativo della mia vita laggiù. Merita per questo un capitolo tutto suo, e non è certo detto che l'argomento si esaurisca qui.
C'è da fare una debita premessa ai miei appunti sul campo: a detta dello stesso interessato signor Hasuna, che della famiglia è il primo rampollo, la famiglia in cui io ho navigato per un mese è una famiglia estremamente tradizionalista, oserei dire all'antica. Certo a questo avrà un poco contribuito il carattere burbero del capofamiglia, la sua formazione militare, il suo essere a sua volta il primogenito di un altrettanto numerosa e prolifica famiglia di origine, o il fatto di essersi sposato giovanissimo e per procura, altri tempi, altra mentalità, altre consuetudini.
Fatto sta che il mio campo di osservazione è stata questa, e non altre famiglie: lungi da me la pretesa di voler generalizzare. Chissà, sicuramente anche in Libia i tempi cambiano, la gente si adegua, i giovani smaniano, e la famiglia pure, di conseguenza, modificherà impercettibilmente e sempre più la sua forma tradizionale, per lasciar spazio a nuove esigenze, nuove aspirazioni, nuovi tipi di rapporto.

Famiglia.
Grande, grande famiglia: io in effetti mi ritrovo con una quantità notevole di cognati e cognate e la pupa con una quantità non indifferente di zii e zie.
Jamal  ha 30 anni, Hassan ne ha 28, Abdulhadi 27, Ali 25, Monà 22, Zenab 20 e Mohammed appena 18, e questa è solo la prima tranche. Perché poi ci sono Fatma (13), Safah (11), Ahmed (9), Marua (7), Aiub (5), Basma (4) e Aimen (3).
Ecco, tanto per rendere l'idea.
Ci tengo a dire che io in mezzo a queste persone mi sono trovata benissimo: nessuna rimostranza da muovere nei loro confronti, sono stata trattata con un affetto e un'attenzione, una disponibilità e una gentilezza che non avrei potuto desiderare o immaginare maggiori, e i miei rapporti con loro improntati a una generale spontaneità e intesa (salvo che col burbero suocero, preciserei) malgrado le ovvie difficoltà comunicative.
Si tratta di persone estremamente aperte, schiette, semplici e, non mi viene altro termine, pulite. Tutte, a loro modo, belle e interessanti, ricche, in sentimenti e capacità di dare e di darsi all'altro.
Devo dire che in generale la pacatezza dei rapporti e del vivere che mi sembrava di respirare lì in mezzo mi faceva spesso sentire come una nota stonata, avendo avuto modo nel corso della lunga convivenza, di mettere in luce i miei pessimi momenti di insofferenza, astiosità, esasperazione, intemperanza , scorbuticità e musonaggine (fortuna che la tipa del piano di sotto per contro era davvero una gran rompiballe, e a gareggiare con lei avrei sempre e comunque perso).
Cosa annotare sulla vita in famiglia? La famiglia qui è un luogo in cui ci si confronta, ci si aiuta e sostiene, si cresce, si impara (i più piccoli dai più grandi), si fanno esercizi di autonomia e si dà grande importanza all'altro. Si condivide, quasi tutto per la verità e raramente ci si pesta i piedi. I bambini appartengono alla famiglia, più che alla mamma: orgoglio e ansia di farsi approvare dai fratelli maggiori, apertura a spazi comunicativi in cui i più piccoli si possano raccontare e partecipare alle attività dei grandi. In generale una grande ricchezza di esperienze e di socialità.
Ma... la famiglia in Libia è un concetto dai confini ampi e assai poco definiti.
Ecco quanto annoto in proposito:
I rapporti umani e familiari qui sono complicati per la mia sensibilità, figlia della civiltà borghese post-industriale.
La famiglia è patriarcale, gerarchica, i confini tra i nuclei familiari al suo interno chiari solo per chi vi appartiene.
I parenti da parte materna hanno un nome specifico: "Kawali" (trascrizione fonetica approssimativa) che io ricordo con facilità perchè mi fa pensare ai cavalli. Dunque i parenti da parte di madre per me sono cavalli.
La famiglia paterna invece non ha bisogno di altri appellativi perché è generalmente a quella che si fa riferimento. E' intorno alla famiglia paterna che tendono a svilupparsi tutti i successivi nuclei familiari; anche la sposa di un figlio finisce nell'orbita della famiglia di lui, per quanto continui a mantenere contatti con la propria.
Di fatto è come se ne uscisse. Con questo fatto si spiegano almeno due cose: perchè Iman, mia cognata, è sempre a casa della suocera, cosa che se io potessi eviterei volentieri.
L'altra è l'usanza da parte della famiglia dello sposo di offrire in dono alla sposa per il matrimonio un tot quantitativo d'oro. In pratica una dote al contrario.
E' come se i parenti dell'uomo offrissero un riscatto per l'entrata della donna all'interno del loro nucleo familiare (la donna è un plus-valore all'interno della famiglia).
Se vogliamo svilire la cosa, è come un contratto di compravendita, e in fin dei conti in un tempo non tropp lontano doveva trattarsi di una cosa del genere.
Le tradizioni che resistono salde ai cambiamenti globali portano in sé il segno residuo di un tipo di civiltà ormai estinta, o in via di estinzione, di cui forse non è neppure del tutto viva la coscienza.
Quando ho chiesto ad Hasuna che senso avesse che uomini e donne (appartenenti a diversi nuclei familiari) non si potessero incontrare all'interno del perimetro domestico, ma fuori sì, lui non ha saputo rispondermi altro se non che era tradizione.
Poi però vivendo e osservando ho forse capito. Il divieto a incontrarsi in casa non riguarda tutti gli esponenti di sesso maschile e femminile in seno alla famiglia, ma solo quelli al di fuori di un certo livello di vicinanza parentale.
Se arrivano cugine in visita per intenderci, loro cercheranno di non incontrare i propri cugini adulti, almeno se maritati (o soprattutto se). ma su questo punto sorgono poi delle deroghe.
Se però dovesse arrivare in visita (per disgrazia) la moglie di un cugino, guai a quel maschio di famiglia che osasse farsi vedere i giro per il "gineceo" (mi permetto questa contaminazione con il mondo dell'antica greia, sebbene non esista nulla di simile in Libia, non vorrei essere equivocata).
La mamma vigila con rigore a che questa regola venga osservata e rispettata e le giovin donzelle si scherniscono pudicamente attendendo fuori dall'uscio della sala che l'eventuale presenza maschile intrusa si sia dileguata prima di fare il proprio ingresso (pazzesco eh?).
Questi divieti non sussistono però tra cognati dell'identico nucleo familiare (per fortuna, se no sarei impazzita). Sia io che Iman, cioè, possiamo incontrarci e parlare (parlare???) liberamente coi nostri cognati, maritati o no (quella del contatto fisico è un'altra storia, niente stretta di mano per i saluti, di scambio di baci fraterni sulle guance, poi, non se ne parla nemmeno! Attenti a sforare se mai vi trovaste a passare di lì!)
E' tutto un po' complicato a doverlo imparare da forestiera, ma assai di più da spiegare per iscritto.
Io comunque, in questi complessi balletti per non incontrarsi, ci vedo il residuo di una società in cui la donna, in quanto bene privato, andava preservato da sguardi e vicinanza di possibili pretendenti antagonisti, compresi gli appartenenti alla medesima cerchia familiare (chè la carne è debole, eh!)
Mi sembra di atteggiarmi ad antropologa quando osservo e annoto queste cose. Ma davvero, la curiosità che suscitano in me è simile a quella di chi osserva il comportamento sociale di un gruppo animale di qualche strana specie sconosciuta (il pangolino africano?), tanto diversi siamo nelle nostre usanze, nei codici espressivi e comportamentali, nel nostro considerare normale una cosa che per altri non lo è affatto.
Memorie libiche. Grande grande famiglia.
Memorie libiche. Grande grande famiglia.
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