Corea, 1986. Una ragazza viene ritrovata morta in un canale ai piedi d’un campo di grano. È l’inizio di un incubo. Per 5 anni la piccola cittadina verrà sconvolta dagli inquietanti omicidi di questo assassino seriale. Il poliziotto di provincia Park con il suo manesco aiutante e il detective di Seul Cho, cercheranno di risolvere l’oscuro enigma.
Splendido, splendido thriller tragicomico firmato nel 2003 da un Bong Joon-ho in stato di grazia il quale attinge dalla sua tavolozza una miriade di colori, sfaccettature, tonalità che vanno a costituire un quadro generale dal forte impatto visivo ed emotivo.
La vivacità della storia si fonda sulle figure dei due poliziotti cialtroni che indagano con metodi ben poco ortodossi; sarà banale dirlo ma ascoltare i loro interrogatori o vederli credere alle panzane di una maga è, con tutta onestà, proprio divertente. Cioè, non bisogna dimenticare che il plot si basa sulle gesta di un feroce serial killer, e che verrebbe spontaneo pensare di come qualunque declinazione comica risulterebbe fuori luogo. Qui, non è così. Gli innumerevoli siparietti tra gli investigatori riescono a correre paralleli agli eventi drammatici legati agli omicidi senza contaminarli, o indebolirli, perché Bong trova quell’equilibrio dovuto fra ironia e seriosità.
In parole povere, ossia le mie: con Memories of Murder potrete ridere e soffrire all’unisono. Non
male per essere un film che tratta “solo” l’indagine della polizia di provincia su un metodico pluriomicida.
Ecco, sottolineo quel “solo”. Perché a differenza di Mother (2009), di cui questa pellicola potrebbe essere il prologo per una strutturazione abbastanza speculare, la parte investigativa si distende su tutta l’ampiezza della storia senza andare a toccare direttamente temi extra, ma in alcuni momenti lo fa come nel mostrare l’arretratezza delle tecnologie coreane rispetto a quelle americane, per dare spazio ad una sceneggiatura caratterizzata da passi all’indietro controbilanciati da spinte in avanti che rivitalizzano una trama spesso vicina all’impantanamento, al quale, però, riesce sempre a sfuggire sorprendendo.
Ad ogni modo un’assonanza con Madeo risiede nella progressiva estinzione dell’umorismo con il profilarsi del finale. È un colpo magistrale di Bong, che dopo aver cullato nella bambagia lo spettatore illudendolo con quell’atmosfera distesa, gli getta in faccia l’ultima manciata di minuti bagnati d’una pioggia avvilente che sporca ancora di più la vicenda, abolendo la speranza impersonata dal detective di Seul che, considerato da me: o come l’unico in grado di risolvere il caso o come probabile colpevole, abbandona la sua etica per sbottare contro il presunto assassino la cui morte avrebbe placato il suo penare.
Non c’è soluzione, non c’è via d’uscita per chi guarda. Si resta intrappolati nella storia di Bong che, è bene ricordarlo, non dà gli elementi necessari per districare la matassa, ma ci fa vedere soltanto (soltanto?) di quanto gli uomini siano spesso impotenti di fronte al male dei propri simili. Come dire: non è forse tanto importante chi è l’assassino, ma ricordare ciò che ha fatto per far sì che non si ripeta.