I caschi dalle visiere argentate, il calore dell’asfalto per l’ultimo sole di questo settembre, il sudore che lucida le facce svuotate dallo sforzo, le schiene curve che devono essere tutte uguali, nella stessa direzione, per lo stesso obiettivo. Qualcuno dice che le cronometro a squadre sono solo una questione di numeri. Ma i numeri li abbiamo inventati noi. Per controllare il tempo, le cose, la vita. Per dare dimensione a questo mondo che è troppo grande per chi ha addosso solo sé stesso. Ma qui, dove il ciclismo è intimo e collettivo assieme, forse, succede che il tempo, i numeri, regalino una forma concreta e a volte crudele alle emozioni.
E’ la prima prova Mondiale ed è anche l’ultima con le divise dei team. Da domani ognuno correrà per il Paese dove è nato, dove ha le radici. Ma oggi si è accanto ai compagni di squadra: si corre da soli, come sempre, eppure insieme. La cronometro a squadre è così: tutti per uno, uno per tutti contro il cronometro che scorre veloce. Una macchina che deve essere perfetta lungo tutto il circuito, che a volte deve sacrificare pezzi per poter succhiare secondi dall’asfalto un po’ più liscio, da una curva insidiosa. Bisogna rischiare, sapere che una traiettoria più coraggiosa avvicinerà le ruote al traguardo.
All’ultimo intertempo prima della linea bianca, il sogno dell’Orica Green Edge si materializza. Un secondo e quarantacinque di vantaggio sull’Omega Pharma, campioni in carica. Poco per lo scorrere inesorabile del tempo; tanto per la vita sul circuito. Tutto è prezioso per arrivare alla meta. Sudati, stanchi, vuoti e speranzosi i ragazzi della squadra australiana si siedono sulle sedie di plastica bianche della tenda dei possibili vincitori. Sono sedie e sembrano troni: ci si vorrebbe stare comodi, con le gambe rilassate dopo la fatica e guardare lo schermo come se fosse un televisore che trasmette un film. Invece quei troni di plastica sono traballanti e precari: i ragazzi con i loro sogni ci stanno scomodi, con i gomiti appoggiati ai braccioli e il corpo teso, con le facce rivolte allo schermo che decreterà una vittoria o una sconfitta. Niente vie di mezzo.
Il loro è il miglior tempo ma solo per ora. Finchè si pedala, finchè c’è ancora qualcuno su quella strada fatta di piccoli numeri che scorrono, nulla è davvero reale.
L’Omega Pharma è ancora lì: fantasma che sul circuito è veramente un solo cuore. Le ombre che si proiettano sull’asfalto con il sole del pomeriggio li fanno sembrare tanti omini curvi di un unico giocattolo: un tandem di sole e buio che corre tra le curve di Firenze, tra gli edifici, tra la gente che, per oggi, non guarda a Santa Maria Novella ma a quelle ruote che sono dodici e sembrano due. Il silenzio dei loro fruscii di ruote, di corpi non dice niente di quello che esplode dentro: il sangue, l’adrenalina, la potenza. Contrasti: il ciclismo ne ha tanti e difficilmente conosce le mezze misure. L’Omega Pharma va a tutta, condivide gli sforzi, il sudore, la fatica, il desiderio di menare di più le gambe, oltre la stanchezza, oltre lo sfinimento.
Quando mancano cento metri al traguardo, tutto rallenta, prende contorni sfocati. Gli occhi dei ragazzi dell’Orica divorano i numerini che scorrono in basso allo schermo che tutti stanno guardando. Vorrebbero fermarli, dirgli di rallentare, di lasciare che il sogno iridato continui.
Il cronometro si ferma. La realtà è matematica, cruda, congelata. Ottantuno centesimi: nemmeno un secondo intero. Un soffio, neanche il tempo di dire una parola, forse solo il microattimo di biasciare qualche lettera. Per ottantuno centesimi di secondo l’Omega Pharma Quick Step è campione del Mondo.
Sorrisi, abbracci che sanno di carne, di fatica. E facce stupite, incredule, deluse. I ragazzi che sognavano la vittoria rimangono incollati su quelle sedie di plastica che non sono più loro: sanno che dovranno andarsene, che la crono è “per sempre” solo quando è finita.
Vincono i più forti, sì, si dice così. Ma qui, in questa disciplina, vince anche chi sa essere parte del tutto senza annullarsi, chi sa sincronizzare il battito con quello del compagno alle sue spalle. Alla fine, nella vita, le cose importanti sono le più piccole, i dettagli che cambiano il corso degli eventi. Ottantuno centesimi di secondo, una parola sussurrata all’orecchio, un treno preso al volo.
Meno di un secondo per gli attimi più preziosi: quelli che portano al traguardo.