In occasione del vertice dei Capi di Stato e di Governo europei del 27 e 28 giugno si è assistito nuovamente alla ormai abituale contrapposizione tra «crescita» e «rigore». La Germania della signora Merkel viene collocata fra i «cattivi»: i ricchi Tedeschi non vogliono aiutare i poveri (Greci, Italiani, Spagnoli…) e predicano un «rigore» da educande. Non vogliono sborsare soldi per la «crescita» degli altri Paesi. Il vertice di Bruxelles ha «salvato l’euro» (anzi, «l’Europa») perché ha convinto la signora Merkel a scucire finalmente qualche banconota dalle tasche tedesche a favore di chi è rimasto indietro.
Ascoltando le fonti, in particolare le due comunicazioni della signora Merkel al Parlamento di Berlino poco prima e subito dopo il vertice di Bruxelles, oltre ai comunicati ufficiali dell’Ue, ci si accorge che il quadro ha tinte diverse.
Dai due discorsi della Cancelliera (che nei principi sono assolutamente coerenti con quelli degli ultimi due anni) il bisogno di crescita non è stato affatto assente. La sua idea di crescita però non è opposta, ma è strettamente legata al «rigore», che i Tedeschi con un termine sicuramente più felice chiamano «consolidamento» (Konsolidierung). Non vi è crescita senza consolidamento e non vi è consolidamento se non si risolvono le cause di fondo della crisi della zona euro.
La signora Merkel individua tre cause della crisi, qui in ordine inverso d’importanza: l’indebitamento, la mancanza di fiducia tra Stati della zona euro e la mancanza di competitività.
Sull’indebitamento vi è poco da dire. La mancanza di fiducia, secondo Angela Merkel (ed è difficile darle torto), deriva dal mancato rispetto da parte degli Stati europei di una massima che la Cancelliera esprime così: «Non promettere ciò che non puoi mantenere e metti in pratica ciò che decidi». Chi rispetta questi principi si qualifica come affidabile e dall’affidabilità nasce la fiducia reciproca. Troppe volte, nella breve storia dell’euro, gli Stati si sono fatti promesse poi non mantenute e non hanno attuato le decisioni prese (talvolta anche la stessa Germania). Ne è nato un clima di sfiducia reciproca e, in assenza di un governo centrale europeo con poteri cogenti, se manca la fiducia tra partner diventa impossibile attuare qualunque politica fondata su responsabilità solidali.
L’aspetto che più sta a cuore alla signora Merkel, però, è la mancanza di competitività di alcuni Stati europei. Dietro alla parola «competitività» sembra nascondersi qualche alchimia indecifrabile: di fatto, per un Paese essere competitivo significa riuscire a vendere i suoi prodotti (automobili, formaggi, scarpe…), generando così ricchezza e occupazione per i propri cittadini.
La competitività non è solo questione di prezzi bassi, a volte non lo è affatto. Nasce dal concorso di molti fattori. La flessibilità del mercato del lavoro, lo insegna l’esperienza svizzera, è uno dei più importanti (che non significa licenziare a volontà, come vuole un’altra semplificazione molto diffusa). Altri elementi necessari sono la credibilità del Paese verso gli acquirenti e investitori internazionali, una consolidata cultura delle imprese volta all’esportazione, un’agile mercato e sistema amministrativo interno e un settore di ricerca e sviluppo capace di mantenere i prodotti del Paese al massimo livello tecnologico e d’innovazione possibile.
Se si guarda in particolare all’Italia, su tutti questi punti i progressi (anzi, più prudentemente: i cambiamenti) qua e là ci sono, ma restano timidi. Il percorso verso la riforma del mercato del lavoro si è svolto all’insegna di difese di parte ormai fuori dal tempo che è inutile persino analizzare nel merito. Nella grande maggioranza delle imprese italiane manca ancora una vera cultura dell’esportazione, a parte le solite eccellenze, che però non bastano a fare sistema. Quanto all’agilità del mercato interno, ogni tentativo di abbattere i privilegi corporativi (nel pubblico e nel privato) che bloccano un’economia potenzialmente molto dinamica come quella italiana si scontra con le pretese di mantenere in vita privilegi, ordini professionali e corporazioni che speculano persino sul prezzo del latte in polvere per neonati. Ricerca e sviluppo: da anni ormai, i migliori laureati delle università italiane, peraltro eccellenti, emigrano per trovare lavoro e contribuiscono al progresso tecnologico di altri.
Un Paese con questi presupposti non può essere competitivo, fatica a vendere i suoi prodotti e a generare sufficiente reddito proprio. Per questo i Tedeschi non vogliono che Italia e Paesi con problemi analoghi ottengano troppo facilmente aiuti europei. I soldi cadrebbero in un macinino capace solo di generare il bisogno di altri aiuti. Prima, devono fare almeno qualche passo concreto per ritrovare la competitività e poter produrre ricchezza da soli, in caso contrario ogni euro imprestato sarà un euro perso sia per il mutuante, sia per il mutuatario.
Questa è la visione della signora Merkel, anzi, dei Tedeschi, in particolare delle aree più conservatrici, ma non solo. Si fonda su una cultura amministrativa che ha le sue radici nella tradizione protestante. Che i Paesi meglio amministrati abbiano conosciuto secoli addietro le riforme protestanti e quelli peggio (si pensi a tutto il mondo latino-cattolico) invece no, ha precise motivazioni legate alla diversa concezione del denaro e della ricchezza che distingue le due confessioni religiose. La visione dell’economia dei Tedeschi non ha dimenticato lo sfacelo della Repubblica di Weimar, quando una pagnotta di pane arrivò a costare più di un miliardo di marchi e un posto a teatro si barattava pagando alla cassa con… un uovo. In tempi recenti, la dottrina economica tedesca ha superato due grandi prove di resistenza: la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale e il risanamento delle regioni tedesche dell’Est gestite per quarant’anni dalla rovinosa economia socialista imposta dagli equilibri di Yalta. Contestare questi successi è un’impresa senza speranza.
Ma cosa è successo Bruxelles, che ha fatto cantare vittoria agli Italiani e ad altri Paesi che condividono i loro problemi? >continua | ©2012 Luca Lovisolo