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Metallica – Dutch Dynamos (1999)

Creato il 16 ottobre 2010 da The Book Of Saturday

Artista/Gruppo: Metallica
Titolo: Dutch Dynamos
Anno: 1999
Etichetta: Mastertracks

Metallica – Dutch Dynamos (1999)

Guadagnavo circa 450 mila lire a settimana, era il 2000 e ogni sabato, preso lo stipendio, andavo al negozio di dischi e compravo un cd dei Metallica. Fu così, con questo gruppo metal, che iniziai ad avvicinarmi al rock. Vien da se che la band di Los Angeles per il sottoscritto rappresenta molto più di un qualsiasi altro gruppo. Sebbene con il tempo (sono passati quasi undici anni da allora) il mio orecchio si sia affinato, da quando volevo soltanto finire la discografia dei “quattro cavalieri” ad oggi, in cui mi cibo di tutto e di più. Con ciò non voglio dire, come molti qualunquisti dell’arte amano fare, che la musica dei Metallica sia da adolescenti e quando diventi più grande inizi ad allontanartene. Niente di più lontano dalla realtà. Ho amato i Metallica e li amo tutt’ora, quando penso a un esempio il primo gruppo che mi viene in mente sono loro. E proprio per questo mi sento di poter anche abbozzare delle critiche, a un gruppo che credo di conoscere molto bene. Dunque, ogni qualvolta mi reco ad ascoltare un loro album, la sensazione è di esaltazione mista a malinconia. Esaltazione perché restano sempre un importantissimo tassello nella mia storia musicale, malinconia perché spesso mi trovo a dover quasi disprezzare produzioni che allora mi parevano irraggiungibili per chiunque altro.

Un colpo quasi fatale nella mia percezione i Metallica lo hanno subito durante l’Heineken Jammin’ Festival del 2003 a Imola, loro alla prima serata, gli Iron Maiden all’ultima. Ovviamente, per chiunque abbia vissuto da vicino la vita del metal (cosa che io facevo con tanto di Metal Hammer fisso nello zaino), la contrapposizione tra Maiden e Metallica andava oltre la differenza tra heavy metal inglese e americano. C’erano dentro stili di vita, politiche, qualità, timbri vocali, quantità dei componenti, e anche innovazione e sperimentazione. Diciamo che la distanza che separava, fino almeno agli anni ’90, gli amanti di una o dell’altra band, somigliava tanto alla distanza che ancora oggi si frappone tra i pro Beatles e i pro Rolling Stones. Io stavo con i Metallica. Ma quel concerto di Imola oggi mi ricorda un po’ ciò che accadde a Ecateo di Mileto, una volta fatto ingresso nel tempio egiziano di Amon-Ra. Ecateo vide crollare la credibilità dei miti della sua amata Grecia, così come, una volta preso contatto con gli Iron Maiden dal vivo, crollò per me la credibilità del mio vecchio mito dei Metallica, i quali non erano più irraggiungibili, anzi, erano stati di gran lunga superati. L’epopea dei Metallica per me poteva dirsi conclusa, purtroppo, dico, ma non era colpa loro, ero io piuttosto che arrivavo tardi all’appuntamento.

Ci misi del tempo a farmene una ragione e oggi con questa recensione cerco il coraggio per defilarmi un po’ dai vecchi preconcetti bigotti. E lo faccio con un disco dal vivo, proprio a suggellare quelle sensazioni provate in Emilia. Dutch Dynamos, bootleg dei re dei bootleg, gli olandesi, concerto ad Eindhoven, l’Arena e Hetfield che inneggia alla sua. Insomma quei «Come on Eindhoven, motherfucker!!! We are Metallica…», come un sigillo, e poi bla bla bla, che solo lui sa stropicciare così bene e far sembrare epico anche ciò che è grettamente voluttuoso e costruito. La sua voce per esempio, finita in cantina da tempo, o forse annacquata come il whiskey nella giara del ’98, quando i Metallica erano già morti sotto una coltre di polvere e però nessuno se ne era accorto, o forse in molti facevano finta di non vedere. La formazione è la stessa di album come …And Justice for All e Black Album, con il terzetto base composto dai soliti Hetfield alla voce, Ulrich alla batteria e Hammett alla chitarra solista, e con Jason Newsted al basso, due anni prima del suo addio, data spartiacque tra i vecchi Metallica e i melensi e troppo, troppo crossover Metallica successivi.

Si parte con un’introduzione di Hetfield, la verve è quella di un H. maturo, non più il ragazzino sbarbatello di Master Of Puppets, ma neanche quello scialbo e patetico di St. Anger (e ignoro tutto ciò che viene dopo…). Saluta il popolo del Dinamo Open Air Festival, clima da delirio, da testimonianze sembra che siano le otto e mezzo di sera, gente già in estasi, il cantante si rivolge al pubblico con vari “fuckin” già fin troppo commerciali, ma d’altronde quello è il cliché, poi l’attacco di Of wolf and man, tra le tracce più anonime di Metallica, scelta ad effetto? Personalmente non ho mai apprezzato fino in fondo le loro scalette ma questo resta un mio cruccio.

Comunque l’inizio è da travaglio. Per gruppi attempati è sempre così, gli strumentisti la pagano meno, ma le voci dei cantanti non riescono a bluffare, e l’apice di un cantante metal spesso si riduce a un quindicennio. Hetfield nei suoi vocalizzi cerca di nascondere l’impaccio con crudi ruggiti, talvolta tiene bene, altre perde completamente la rotta. Fortuna che subentra la Les Paul di Hammett. Insomma, il primo brano è quello del riconoscimento, i primi suoni di un live li vedo come un’impronta digitale. E Hammett è sempre quello, c’è poco da dire. Preciso, puntuale, effetti giocati al millimetro, velocità giusta, la sua, scale giuste, le sue.

Il pubblico appare già più freddo, ma arriva The thing that should not be, quella sinusoide di basso, un brano storico di Master Of Puppets. All’interno una piccola gemma di assolo, quello di Hammett, con distorsioni supersoniche, come un motore che apre il suo turbo, pronto a far esplodere tutti i suoi ottani. E «this the thing that should not beee, maan», come chiude il vocalist per avvicinarsi al pubblico e ripartire con uno dei brani più interessanti degli ultimi Metallica classici, The memory remains. Brano del ’97, la distanza è pressoché nulla, è il brano più vicino alla voce dell’Hetfield attuale, e quello forse meglio espresso sul palco olandese. E sul «Da da da da da da daaaa» finale quel «Keep sing’, everybody… com’on…. louder… Singin’…» con il pubblico finalmente, e giustamente, in visibilio.

E anche il medley Four Horsemen-For whome the bell tolls ha una sua valenza, e non solo storica. È il metal vero, puro, dentro ci sono mescolati Kill’em All e Master Of Puppets, la crema della produzione dei quattro cavalieri che allora vantavano al basso un certo Cliff Burton, e scusate se è poco. E non credo possa troppo piacere agli amanti dei Metallica attuali, insomma, quelle raffiche di sestine e tapping nei soli di chitarra a velocità ultrasensoriali che Hammett ha archiviato da almeno dieci anni. C’è poi la curiosità di scoprire come potrebbe essere unito un brano che parte con le campane in tutta tranquillità come For whome the bell tolls a uno che finisce a tutt’altre altitudini.

Il tutto viene risolto con un semplice ritocco di Ulrich, una scrollata di piatti, un paio di rollate di gran cassa, via le campane e vai da subito con la base ritmica ancestrale, la leva di Hammett e quelle cinque note ribadite e poi distorte col wah fino al raggiungimento del godimento estremo (ultimo amplesso da cucina londinese…). Purtroppo Hetfield qui sembra un pensionato, mi spiace dirlo, uno dei picchi negativi peggiori di tutto l’album, ed è proprio quando a un brano sei particolarmente attaccato che le imperfezioni non le tolleri. Ma può accadere anche che ti accorgi di pezzi che prima avevi derubricato a robetta di contorno. Come King Nothing che rispetto a come è presentata in Load qui sembra un altro brano, tutt’altra verve, tutt’altra cattiveria. Ed infatti avrebbe potuto essere contenuta anche in un album come Black. Sarà anche che la scelta della scaletta, quasi tutta incentrata su una sorta di revival, non consente troppe variazioni di effetti, quindi, vai con una King Nothing ringiovanita almeno di cinque anni.

Ma poi diciamoci la verità, chi va a vedere i Metallica, quelli veri, non aspetta altro che due brani in particolare, Master Of Puppets e One. Quelli nei concerti dei Metallica non mancano mai, manca però la prima in questo disco, grave pecca. Posso dire di esser stato fortunato visto che nel succitato concerto, entrambi i pezzi sono stati eseguiti, che poi me ne andai depresso perché non era stata fatta Fade To Black, quello è tutto un altro paio di maniche.

One è perfettamente eseguita, integra, pulita (insomma, qualche sbavatura qua e là, però…), bella, limpida, il brano che a detta di Ulrich racchiude l’essenza stessa dei Metallica. Va ascoltata, senza troppe parole, che sarebbero pleonastiche, perché poi Ecateo non visse mica troppo bene con tutte le sue nuove e disincantate certezze. Io tengo le mie, e One non si tocca, proprio no. Voglio poi dire, chi ha vissuto un’esperienza di Metallica in Live può testimoniare quanto possa valere il pezzo centrale di questo brano, tra Ulrich e Hammett che ti fanno a pezzi, e che se poi hai alzato un po’ il gomito si inizia a girare che non ti fermi più e vorresti altre dieci One prima di andartene. Non è un caso che il brano è sempre al centro delle scalette. Troppo stremante all’inizio, troppo straziante alla fine, che non vorresti più andar via e invece devi. In mezzo ci sta tutto, dunque approvo.

Fight fire with fire è ancora più potente di quella originale, quell’inizio tranquillo che sembra preludere a un pezzo di musica classica, che un comune mortale direbbe «ma che sono questi i Metallica? Allora piacciono anche a me…», per poi costatare che dietro è celato un disegno diabolico, un giro straziante. Il pezzo si interrompe poco prima del solo di chitarra, «Are you feel? Are you alive?» si sincera Hetfield, dando il via alla danza della morte, combatti il fuoco con il fuoco, che ormai è diventato un proverbio per i fan degli Horsemen.

Altro passo in avanti nel tempo, Sad But True, tra le più belle dei Metallica, tra le più piene, il passo rallenta, “triste ma vero”, vero certo, i vocalizzi di Hetfield stavolta degenerano in gorgheggi da gremlin, voce rauca e acuti da imam che richiama i fedeli alla moschea. O, ancora, da Robert Plant post Led Zeppelin, con annessa piega orientaleggiante e poco, direi molto poco riuscita.

Creeping Death, morte strisciante, quella dei Metallica, lenta, inarrestabile. È l’apoteosi della depressione. Non perché non sia un pezzo fantastico, quale lo è effettivamente, ma per come viene rappresentata ad Eindhoven. Accademica, la pulizia, quella che aveva contraddistinto i Met anche quando si avvicinavano alle urla, qui è completamente scomparsa. Sembra di ascoltare i Fear Factory, non c’è altro più che grida e miseria di suoni veri.

Ci vuole Die die die my darling per scendere a riflessioni più al passo coi tempi. Ma non ho troppo da dire su questo pezzo, che non mi ha mai colpito più di tanto. Credo neanche a loro, visto che funge spesso da trapasso da un brano all’altro, in questo caso è un incipit a Enter Sandman, terzo e ultimo pezzo da Metallica tanto per chiudere un cerchio. Da quell’album per esempio avrei scelto altri tipi di gemme, come Wherever I may roam o ancora Don’t Tread on me che si sarebbero prestati anche meglio al deficit vocale di James, che però stavolta sorprende e dopo oltre un’ora di concerto trova ancora una piccola riserva di muscoli per infervorare il pubblico. Tanto da chiedere poi un bis che, come sempre accade era già pronto. Si chiude con Battery dunque, in memoria di tempi andati, «Do you wan’it? Do you wan’it», si assicura il leader del gruppo, «Thank you motherfucker!!!» si becca il pubblico e si chiude con il solo finale un concerto che, a sentire molti presenti fu «wonderful», ma lì c’entra anche l’estasi del momento.

Voto 5,8Di qualità acustica medio alta, uno dei moltissimi bootleg della band californiana, questo in particolare presenta alcune pecche sulla scelta dei brani. Capisco l’omissione di Nothing else matter, di Fuel, di Bleeding me, ma non comprendo l’esclusione di Master of puppets, brano storico e rappresentativo della band. Inoltre, Hetfield, Hammett, Ulrich, artisti che hanno contribuito in maniera decisiva all’ascesa dell’heavy, direi che anch’essi riascoltando i loro brillanti successi degli anni Ottanta, lo farebbero con una lacrimuccia di rimpianto. Il metal che piace a me, quello della velocità mista a tecnica e sentimento, quello graffiante con poco più di tre accordi se coniugati al sublime gioco delle sensazioni, quel metal, già ai tempi di Eindhoven, era già morto e sepolto, con il declino dei Metallica, con il costante, sempre identico palinsesto degli Iron Maiden, con l’ascesa dello scream, del crossover, del death, e soprattutto con un gioco ormai conosciuto da tutti e deformato al dio dell’industria e del business. Gruppi così non torneranno mai più, e forse è giusto così, e dischi come questo hanno una valenza da museo delle cere, senti come erano, senti come già non erano più. I Nostri non possono fare altro che iniziare ad indossare giacca e cravatta e prendere atto di aver fatto la loro stagione.

Line Up:

James Hetfield – voce, chitarra ritmica

Kirk Hammett – chitarra solista, cori

Lars Ulrich – batteria, percussioni

Jason Newsted – basso

Tracks:

  1. Of wolf and man
  2. The thing that should not be
  3. The memory remains
  4. For whom the bell tolls
  5. King nothing
  6. One
  7. Fight fire with fire
  8. Sad but true
  9. Creeping death
  10. Die, die my darling
  11. Enter sandman
  12. Battery

Sidistef



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