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Metamorfosi del Sogno: Le Rovine Circolari di Jorge Luis Borges
Creato il 21 giugno 2012 da Alessandro Manzetti @amanzetti(...) Il proposito che lo guidava non era impossibile, anche se soprannaturale. Voleva sognare un uomo: voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà. (...) Comprese che l'impegno di modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il più arduo che possa assumere un uomo, anche se penetri tutti gli enigmi dell'ordine superiore e dell'inferiore: molto più che tessere una corda di sabbia o monetare il vento senza volto (...) La quattordicesima notte sfiorò con l'indice l'arteria polmonare e poi tutto il cuore, di fuori e di dentro. L'esame lo soddisfece. Deliberatamente non sognò durante tutta una notte; poi riprese il cuore, invocò il nome di un pianeta e passò alla visione d'un altro degli organi principali. In meno d'un anno giunse allo scheletro, alle palpebre. La capigliatura innumerevole fu forse il compito più difficile. Sognò un uomo intero, un giovane, che però non si levava, nè parlava, nè poteva aprire gli occhi. Per notti e notti continuò a sognarlo addormentato.(...) Questo molteplice iddio gli rivelò che il suo nome era Fuoco, che in quel tempio circolare (e in altri eguali) gli erano stati offerti i sacrifici e reso il culto, e che magicamente avrebbe animato il fantasma sognato, in modo che tutte le creature, eccetto il Fuoco stesso e il sognatore, l'avrebbero creduto un uomo in carne e ossa (...)
Leggere questo racconto di Jorge Luis Borges (Le rovine Circolari, 1944) ci costringe a sporgerci dall'ultimo parapetto della realtà, osservare per la prima volta il grande precipizio del sogno, dell'apparenza, dell'illusione. Una vertigine archetipale ci avvolge stringendo forte la gola, i muscoli mutano in un denso scuro liquido; la realtà, per come siamo abituati a sperimentarla, è ormai dietro le spalle, e difficile abbandonare questa linea di confine ormai scoperta, e tornare indietro, giù a valle, verso la nostra vecchia esistenza.
Il breve racconto Le rovine circolari, che alla fine dell'articolo troverete pubblicato integralmente, è stato pubblicato nella raccolta Finzioni (Ficciones), che nella edizione italiana (io possiedo la prima edizione Oscar Mondadori del 1980) unisce due raccolte di racconti: Il giardino dei sentieri che si biforcano (della quale fa parte Le rovine circolari) e Artifici, scritti tra il 1935 e il 1944.
Lo scenario del racconto è fortemente onirico, e riesce a sviluppare in modo originale molti temi, come la creazione dell'uomo, l'estasi e il misticismo, la circolarità del tempo e l'eterno ritorno, la frustrazione dell'uomo nella sua impossibile corsa verso la conoscenza, le ambiguità del sogno, il mito e la morte. Tutto questo in circa cinque profondissime pagine. Sfogliando il racconto si percepisce sulle dita la stoffa labirintica che dirige il racconto all'interno di un tubo tridimensionale, e il sapore magico e mitologico, che riprende molte influenze, dalla cultura indù fino ai richiamo alla leggenda ebraica del Golem. Le rovine circolari è uno degli esempi meglio riusciti di sincretismo, che fonde un nuova lega letteraria, con i metalli della mistica ebraica, del zoroastrismo, dei miti dell'estremo oriente. Ma in questo senso si potrebbe andare avanti all'infinito, componenti iraniche sono rappresentate dall'elemento Fuoco, che scopriremo tra i protagonisti del racconto, che avvampa, distrugge, e infine consola, come una morte attesa, ma premono anche, tra le affilate parole di Borges, la solitudine e la malinconia occidentale.
Una delle chiavi di lettura del racconto, fornita dall'autore stesso, è significativa per l'uso del contesto onirico, si tratta della citazione da Through the Looking Glass di Lewis Carroll: “And if he left off dreaming about you...” Ma leggere Borges significa fare i conti con il suo immenso bagaglio culturale, è davvero difficile decifrare nella sua completezza i tanti messaggi sovrapposti che come codici si trovano in questo racconto. Insomma, una bella sfida che mi ha appassionato, ma che perderò in partenza con questo straordinario autore, demiurgo di affascinanti e infiniti labirinti letterari. Ogni periodo, ogni parola varrebbe un approfondimento, le metafore producono continui accessi alla porte universali di Borges, capaci ognuna di aprire stanze infinite. Sono incessanti le note spirituali e cosmogoniche, gli ambienti macrocosmici e le geometrie storiche che fanno spesso da punti cardinali delle opere borgesiane. Ma prima di proseguire in questa sintetica analisi del racconto, credo sia comunque utile riportare qualche nota sulla trama, per quanto ciò possa essere significativo con un autore metafisico come Borges
Le Rovine Circolari raccontano la storia di uno straniero, un mago indù venuto dal Sud, che nei pressi delle rovine circolari di un tempio ormai distrutto, attua il suo piano soprannaturale: creare un uomo grazie alla sua attività onirica, sognarlo fin nei minimi dettagli, per anni, comporlo lentamente e istruirlo, fino a offrirgli una vera e propria esistenza, una residenza reale in questo mondo. Un nuovo golem, creato dalle molecole del sogno, dalle arti magiche, che saprà e dovrà trasformarsi nel nuovo Adamo, e essere libero. La domanda principale che ci pone Borges con questa opere è se la vita umana è un sogno o la creazione da parte di un altro essere. Lo straniero, l'asceta demiurgo, riuscirà nella sua impresa e manderà la sua creatura nel mondo, grazie all'aiuto del Fuoco, che fa da collante tra l'irrazionale umano (il magico) e quello divino (elemento promordiale). Si rivelerà una grande illusione?
I simulacri che Borges ci presenta sono i guardiani di questo racconto, ci parlano attraverso il loro simbolismo, scrivono comunque qualcosa che non troviamo nelle righe di questo racconto, che in realtà potrebbe contare centinaia, migliaia di pagine virtuali e non esplicite, almeno per un lettore attento. Il tema della circolarità che pervade il racconto ci guida (che fa pensare al Mandala e all'iconografia indù), ci riporta continuamente vero il concetto del doppio e dell'eternità, mentre è stridente il conflitto tra l'elemento onirico, che per sua natura esprime libertà, e l'angoscia scatenata dagli abissi inesplorabili del caos primordiale, che giace silenzioso sotto le rovine della conoscenza umana, per poi sputare di nuovo il suo fuoco, le sue altezze impossibili, le sue cavità oscure. L'uso del soprannaturale dello straniero, protagonista del racconto, che va dunque contro le leggi della natura, è una ulteriore chiave di lettura del rapporto conflittuale tra l'umano e il divino, le arti magiche infrangono gli equilibri e i limiti umana, sono un elogio dell'immaginazione da parte dell'autore. Conseguentemente, della libertà, e, probabilmente, dell'ossessione dell'eterno ritorno.
Non è possibile, in questo spazio, entrare in maggiori dettagli e interpretazioni di quest'opera di grande interesse e complessità, vi lascio alla lettura integrale del racconto, che vi accoglierà, credo, come un grande specchio dai poteri divinatori:
Le Rovine Circolari di Jorge Luis Borges (da Finzioni ) traduzione di Franco Lucentini
And he left off dreaming about you... Trough the Looking-Glass, IV.
Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù incagliarsi nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l'uomo taciturno veniva dal Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco violento della montagna, dove l'idioma zend è contaminato dal greco, e dove la lebbrea è infrequente. L'uomo grigio baciò il fango, montò sulla riva senza sostare (probabilmente senza sentire) i rovi che gli laceravano le carni, e si trasse melmoso e insanguinato fino al recinto circolare che corona un a tigre o un cavallo di pietra, che fu una volta del colore del fuoco e ora è quello della cenere. Questa rotonda è ciò che reste d'un tempio che antichi incendi divorarono, che profanò la vegetazione delle paludi, e il cui dio non riceve più onori dagli uomini. Lo straniero si stese ai piedi della statua. Si svegliò a giorno fatto. Constatò senza stupore che le ferite s'erano cicatrizzate; chiuse gli occhi pallidi e dormì, non per stanchezza della carne ma per determinazione della volontà. Sapeva che questo tempio era il luogo che conveniva al suo invincibile proposito; sapeva che gli alberi incessanti non erano riusciti a soffocare, più a valle, le rovine d'un altro tempio propizio, anch'esso di dèi incendiati e morti; sapeva che il suo obbligo immediato era il sonno. Verso la mezzanotte lo svegliò il grido inconsolabile d'un uccello. Orme di piedi nudi, alcuni frutti e un bacile l'informarononche la gente del luogo aveva spiato con rispetto il suo sonno e sollecitava la sua protezione, o temeva la sua magia. Sentì il freddo della paura e cercò nella muraglia dilapidata una nicchia sepolcrale, si coprì con foglie sconosciute. Il proposito che lo guidava non era impossibile, anche se soprannaturale. Voleva sognare un uomo: voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà. Questo progetto magico aveva esaurito l'intero spazio della sua anima; se qualcuno gli avesse chiesto il suo nome, o un tratto qualunque della sua vita anteriore, non avrebbe saputo rispondere. Gli conveniva il tempio disabitato e rotto; perchè era un minimo di mondo visibile: anche gli conveniva la vicinanza dei contadini, perchè s'incaricavano di sovvenire ai suoi bisogni frugale. Il riso e la frutta del loro tributo erano un pascolo sufficiente al suo corpo, consacrato all'unico compito di dormire e sognare. Al principio i sogni furono caotici; poco dopo, di natura dialettica. Lo straniero di sognava al centro d'un anfiteatro circolare che era in qualche modo il tempio incendiato; nubi di alunni taciturni ne appesantivano i gradini; i volti degli ultimi si perdevano a molti secoli di distanza e a un'altezza stellare, ma erano del tutto precisi. L'uomo dettava lezioni d'anatomia, di cosmografia, di magia: quei volti ascoltavano con ansietà e procuravano di rispondere con senno, come se indovinassero l'importanza di quell'esame, che avebbe riscattato uno di loro dalla condizione di vana apparenza., l'avrebbe interpolato nel mondo reale. Nel sogno, o più tardi, da sveglio, l'uomo considerava le risposte dei suoi fantasmi, non si lasciava ingannare dagli impostori, indovinava in certe perplessità un'intelligenza crescente. Cercava un'anima che meritasse di partecipare all'universo. Dopo nove o dieci notti comprese che non poteva sperare in quegli alunni che accettavano passivamente la sua dottrina, ma sì in quelli che arrischiavano, a volte, una contraddizione ragionevole. I primi, sebbene degni di amore e di buon affetto, non potevano aspirare alla condizione di individuo; gli altri preesistevano un poco di più. Un pomeriggio (ormai anche i pomeriggi erano tributari del sonno, ormai non vegliava che un paio d'ore al mattino) congedò per sempre il vasto collegio illusorio e restò con un solo alunno. Era un ragazzo taciturno, melanconico, discolo qualche volta, dai tratti affilati che ripetevano quelli del suo sognatore. La brusca eliminazione dei suoi condiscepoli non lo sconcertò troppo a lungo; dopo poche lezioni, i suoi progressi già meravigliavano il maestro. Ma ecco, sopravvenire la catastrofe. Un giorno, l'uomo emerse dal sonno come da un deserto viscoso, guardò la luce vana d'un tramonto che prese per un'aurora, comprese di non aver sognato. Tutta quella notte e il giorno seguente la lucidità intollerabile dell'insonnia s'abbattè su di lui. Volle esplorare la selva, estenuarsi; ma potè appena, tra la cicuta, dormire pochi frammenti di sogno debole, fugacemente traversati da visioni di tipo rudimentale: inservibili. Volle convocare il collegio, ma aveva appena articolato poche parole d'esortazione che quello si deformò, si cancellò. Nella veglia quasi perpetua, lacrime di rabbia bruciavano i suoi vecchi occhi. Comprese che l'impegno di modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il più arduo che possa assumere un uomo, anche se penetri tutti gli enigmi dell'ordine superiore e dell'inferiore: molto più che tessere una corda di sabbia o monetare il vento senza volto. Comprese che un insuccesso iniziale era inevitabile. Giurò di dimenticare l'enorme allucinazione che l'aveva sviato al principio, e cercò un altro metodo di lavoro. Prima di applicarlo, dedicò un mese al recupero delle forze che aveva sprecato nel delirio. Non premeditò più di sognare, e quasi immediatamente gli riuscì di dormire per un tratto ragionevole del giorno. Le rare volte che sognò durante questo periodo, non fece attenzione ai suoi sogni. Per riprendere l'impresa, aspettò che il disco della luna fosse perfetto. Allora, di sera, si purificò nelle acque del fiume, adorò gli dèi planetari, pronunciò le sillabe lecite d'un nome poderoso e dormì. Quasi subito, sognò un cuore che palpitava. Lo sognò attivo, caldo, segreto, della grandezza d'un pugno serrato, color granata nella penombra d'un corpo umano ancora senza volto nè sesso; con minuzioso amore lo sognò, durante quattordici lucide notti. Ogni notte lo percepiva con maggiore evidenza. Non lo toccava: si limitava a esserne testimone, a osservarlo, talvolta a correggerlo con lo sguardo. Lo percepiva, lo viveva, da molte distanze e da sotto molti angoli. La quattordicesima notte sfiorò con l'indice l'arteria polmonare e poi tutto il cuore, di fuori e di dentro. L'esame lo soddisfece. Deliberatamente non sognò durante tutta una notte; poi riprese il cuore, invocò il nome di un pianeta e passò alla visione d'un altro degli organi principali. In meno d'un anno giunse allo scheletro, alle palpebre. La capigliatura innumerevole fu forse il compito più difficile. Sognò un uomo intero, un giovane, che però non si levava, nè parlava, nè poteva aprire gli occhi. Per notti e notti continuò a sognarlo addormentato. Nelle cosmogonie gnostiche, i demiurghi impastano un rosso Adamo che non riesce a alzarsi in piedi; così inabile rozzo e elementare come quest'Adamo di polvere, era l'Adamo di sogno che le notti del mago avevano fabbricato. Una sera, l'uomo fu quasi per distruggere tutta l'opera, ma si pentì. (più gli sarebbe valso distruggerla). Fatto ogni voto ai numi della terra e del fiume, si gettò ai piedi dell'effigie che era forse una tigre o forse un cavallo, e implorò il suo sconosciuto soccorso. Sul crepuscolo dello stesso giorno, sognò questa statua. La sognò viva, tremula: non era un atroce bastardo di cavallo e di tigre, ma queste due veementi ceature a un tempo, e anche un toro, una rosa, una tempesta. Questo molteplice iddio gli rivelò che il suo nome era Fuoco, che in quel tempio circolare (e in altri eguali) gli erano stati offerti i sacrifici e reso il culto, e che magicamente avrebbe animato il fantasma sognato, in modo che tutte le creature, eccetto il Fuoco stesso e il sognatore, l'avrebbero creduto un uomo in carne e ossa. Gli ordinò di inviarlo, una volta istruitolo nei riti, nell'altro tempio in rovina le cui torri sussistevano più a valle, affinchè una voce tornasse a glorificare il fuoco in quell'edificio deserto. Nel sonno dell'uomo che lo sognava, il sognato si svegliò. Il mago eseguì gli ordini. Dedicò qualche tempo (e furono finamente due anni) a scoprirgli gli arcani dell'universo e del culto del fuoco. Nell'intimo, gli doleva di separarsi da lui. Col pretesto della necessità pedagogica, allungava ogni giorno le ore dedicate al sonno. Rifece anche l'omero destro, forse mal riuscito. A volte, l'inquietava un'impressione che tutto quello fosse già avvenuto... In complesso, i suoi giorni erano felici, chiudendo gli occhi pensava: "Ora starò con mio figlio" O, più di rado: " Il figlio che ho generato m'aspetta, e non esisterà se non me ne vado". Gradualmente, lo venne avvezzando alla realtà. Una volta gli comandò di imbandierare una cima lontana: il giorno dopo, sul monte, fiammeggiava la bandiera. Tentò altri esperimenti di questo genere, ogni volta più audaci. Comprese con una certa amarezza che suo figlio era pronto per nascere. Quella stessa notte, per la prima volta, lo baciò e lo inviò all'altro tempio, le cui vestigia biancheggiavano a valle, a molte leghe di selva inestricabile e di acquitrini. Prima (perchè non sapesse mai che era un fantasma) gl'infuse l'oblivio totale dei suoi anni di apprendistato. La sua vittoria e la sua pace non furono senza melanconia. All'alba e al tramonto si prosternava dinanzi alla figura di pietra, pensando forse che il suo figlio irreale stesse eseguendo riti identici, in altre rovine circolari, piùa valle; Percepiva un poco impalliditi i suoni e le forme dell'universo: il figlio assente si nutriva di queste diminuzioni della sua anima. Lo scopo della vita era raggiunto; continuava a vivere in una specie d'estasi. Dopo un certo tempo che alcuni narratori della sua storia preferiscono computare in anni, altri in lustri, lo svegliarono a mezzanotte due rematori; non ne vide i volti, ma gli parlarono di un uomo magico, in un tempio del Nord, capace di camminare sul fuoco senza bruciarsi. Il mago ricorsò bruscamente le parole del dio. Ricordò che di tutte le creature che compongono l'orbe, il Fuoco era l'unica a sapere che suo figlio era un fantasma. Questo ricordo, tranquillante al principio, finì per tormentarlo. Temette che suo figlio meditasse su questo strano privilegio e scoprisse in qualche modo la sua condizione di mero simulacro. Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno di un'altro uomo: che umiliazione incomparabile, che vertigine!. A ogni padre interessano i figli che ha procreato (che ha permesso) in una mera confusione o felicità; è naturale che il mago temesse per l'avvenire di quel figlio, pensato viscere per viscere e lineamento per lineamento, in mille e una notti segrete. Il termine per rimuginare fu brusco, ma lo precedettero alcuni segni. Primo (dopo una lunga siccità) una remota nube sopra un colle, leggera come un uccello; poi verso Sud, un cielo rosa come la gengiva del leopardo; poi le fumate, che arruginiscono il metallo delle notti; infine la fuga impazzita delle bestie. Poichè si ripetè ciò che era accaduto nei secoli. Le rovine del santuario del dio del fuoco vennero distrutte dal fuoco. In un'alba senza uccelli il mago vide avventarsi contro le mura l'incendio concentrico. Pensò, un istante, di rifugiarsi nell'acqua; ma comprese che la morte veniva a coronare la sua vecchiezza e a assolverlo delle sue fatiche. Andò incontro ai gironi di fuoco: che non morsero la sua carne, che lo accarezzarono e inondarono senza calore e combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che anche lui era una parvenza, che un altro stava sognandolo
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