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La grande peculiarità di Metropia (2009) sta tutta nella sua veste grafica.
Il regista svedese Tarik Saleh, compagno di merende di Erik Gandini (Videocracy) con il quale ha fondato la casa di produzione Atmo Media Network, per quello che è il suo esordio nella “ficiton” – prima aveva girato soltanto 2 documentari – si circonda di personalità illustri. La voce inglese del diafano Roger è di Vincent Gallo, quella di Nina ha le soavi corde vocali di Juliette Lewis, mentre per lo spietato imprenditore Ivan Bahn si presta il tuttofare Udo Kier.
Invece nel tamburino dei sceneggiatori si può leggere nientepopodimenoche il nome di Stig Larsson, in realtà un perfetto sconosciuto perché l’autore di Uomini che odiano le donne oltre ad essere morto da un pezzo si chiamava Stieg e non Stig.
Dicevo dell’aspetto visivo.
Saleh per forza di cose era destinato a lavorare nel campo dell’animazione perché già suo padre bazzicava l’ambiente, e proprio Tarik si affermò da giovanissimo come artista graffittaro nella periferia di Stoccolma. La particolare tecnica utilizzata in Metropia prende il nome di “Cutout su piattaforma digitale con Adobe After Effects, forzando un software che non è disegnato per questo genere di lavoro” (eh? Boh, fonte). Per intenderci il Cutout è stato utilizzato in South Park, anche se ha poco a che vedere con l’interpretazione di Saleh.
Il risultato è strano. L’espressività e la mimica facciale sono ben antropomorfizzate. Di più: con quei testoni sgraziati i personaggi sono pressoché caricature, trasposizioni allegoriche di un’umanità in frantumi. Vincono nella precisione dei dettagli (i tatuaggi di Anna, la fronte sudata del politico orientale), perdono col movimento, nel semplice camminare. Non so se sia una scelta voluta o un reale problema derivante dall’uso dello stop-motion, quel che è certo è che i disegni diventano irrealmente goffi quando si muovono, e difatti non si vedranno mai chiaramente a figura intera mentre sono in moto.
La storia è deboluccia.
Si barcamena nel fanta-thriller politico utilizzando stilemi già triti e ritriti ai tempi di Hitchcock. E proprio da zio Alfred arriva quella predisposizione usurata di calare il classico signor Nessuno nel bel mezzo di una tempesta più grande di lui. Anche l’utilizzo della Dark Lady dalle ambigue intenzione non rientra nel manuale dell’originalità. Quasi deprimente la metodologia per sconfiggere il nemico: il solito “piazza la bomba e scappa” reso possibile da un’improbabile somiglianza tra il controllore e il controllato.
Il messaggio di denuncia contro l’omogeneizzazione, la massificazione, il controllo, filtrato dallo standardizzato futuro orwelliano, sarà pur sempre utile poiché repetita iuvant, tuttavia Jeremy Bentham è morto nel 1832 e del suo Panopticon si è detto e scritto molto. Il discorso è ancora aperto e avrebbe potenzialità, il regista le intuisce senza sfruttarle a dovere.
Di contro azzeccata la scelta di usare un simbolo del consumismo globale come Hello Kitty per destabilizzare il grande sistema.
Come non si suol dire: bello l’abito, o perlomeno curioso, non il monaco che c’è sotto.
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