Simone Bellitto 7 marzo 2013 cinema, vedere Nessun commento
All’interno della più che centenaria storia del cinema sono davvero pochi i film che possono essere definiti dei veri e propri capolavori assoluti. Una di queste meraviglie del mondo della celluloide può essere considerato il lungometraggio che stiamo per analizzare in questa sede, vale a dire Metropolis (1927) del regista tedesco Fritz Lang. Questo caposaldo del cinema muto, opera maturata tra i percorsi di sperimentazione del cinema espressionista tedesco, vissuto nel periodo della travagliata Repubblica di Weimar, stupisce per l’eloquenza veemente con cui affronta il tema dello sguardo sul futuro, prossimo o remoto che sia. Quest’affresco fantascientifico di culto dipinge un’epoca che ancora non esiste ma che assomiglia molto, in modo tristemente profetico, alla società in declino della fine degli anni ’20 ad un passo dal punto di non ritorno. La potenza delle immagini sopperisce alla mancanza delle parole. Un racconto mitopoietico che deborda lo schermo, negli occhi dei protagonisti, attori di un modo di fare cinema che oramai, purtroppo, non esiste più. I personaggi principali della vicenda assomigliano tanto (e volutamente) a eroi di un poema epico-spirituale. La narrazione, i luoghi e le vicende sono infatti figlie di un accurato bricolage fra l’epopea biblica (in una visione decisamente escatologica dell’Antico e del Nuovo Testamento) ed un vero e proprio romanzo di formazione.
Freder Fredersen, il mediatore, assomiglia, infatti, ad un incrocio fra un Cristo neo-messianico ed un giovane Holden che muove i suoi primi passi all’interno dei livori della società alla scoperta di se stesso. Interessante risulta anche il sostrato che ruota attorno a questo personaggio. Un alone che avvolge la sua figura in maniera duplice: marxista, nella sua discesa agli inferi del folle sottosuolo dell’indigenza umana; nietzschiano nel suo volare al di sopra della mediocrità materiale, incarnando con tracimante forza espressiva l’ideale del superuomo. Maria, invece, alter-ego femminile perfettamente simmetrico al nostro Messia venuto dal domani, incarna lo spirito della madre di Gesù e di Madre Natura che lotta per un ritorno ad una sorta di zeitgeist originario andato in frantumi. Il suo ruolo di guida, pervasivo e illuminante, è volto ad assicurare tempi migliori al peggiore dei crepuscoli della società civile.
Vi è poi il padre-padrone, Joh Fredersen, despota e signore della borghesia anti-filantropica che vive con ipocrisia alla luce del sole. A completare il quadro una figura classica, idea tipica del mondo distopico, vale a dire lo scienziato pazzo, Rotwang, manifestazione luciferina di un anarchico Mefistofele, in preda alla sete insaziabile di dolore e di anime umane. Il risultato di questo intenso amalgama è una distopia che avvicina il mondo conosciuto alla fine dei suoi giorni, all’Armageddon, al giudizio universale finale. Gli exempla negativi che pervadono l’intero romanzo visivo vanno, dunque, dalla Torre di Babele al Moloch, alla meretrice di Babilonia. In un universo in sfacelo in cui la fine sembra vicina, la rivolta violenta degli uomini sembra presagire le coppe, i sigilli e le bestie dannate nate dalla penna di San Giovanni.
L’unico viatico, l’unica panacea a tutti questi mali è la comunione umana, la fratellanza smarrita da esseri in preda ai sette vizi capitali, durante l’attesa del trapasso definitivo, della falce mortale. Poiché la perdita di umanità è il primo passo verso l’ars moriendi. Lang, per concludere, riesce a mettere a fuoco con tocco magistrale tutte queste ardue tematiche come mai nessun altro ha potuto fare in un’epoca che sembra lontana anni-luce dalla nostra. Metropolis è un capitolo indispensabile nei manuali di storia del cinema ed è fondamentale alla compilazione del curriculum del buon cinefilo. Suvvia, dunque, se non avete mai avuto l’opportunità di gustarvi questa pellicola correte subito a sopperire a questa mancanza.