Fulvalene coordinato con due atomi di rutenio. Imagecredit: Jeffrey Grossman - MIT
Dopo aver visto i super-atomi e gli iperalogeni, le molecole con più transizioni di forma prestabilite a comando, gli effetti fotomeccanici semaforici dei cristalli liquidi, non dovrei più stupirmi apprendendo che esiste una molecola in grado di immagazzinare il calore, eppure sono rimasto piacevolmente sorpreso quando ho letto che questo processo avviene in maniera stabile, a richiesta e soprattutto reversibile.
In poche parole attualmente esistono due metodi per catturare l’energia dal sole, con il fotovoltaico si trasforma la luce in elettricità, mentre con appositi collettori possiamo convertire la radiazione solare in energia termica e utilizzarla direttamente, ad esempio per produrre il vapore che alimenta una turbina.
Ma esiste anche un altro sistema, ancora allo stadio embrionale, che è stato accantonato perché nessuno trovava un modo per sfruttarlo in termini pratici ed economici.
Qui sopra vediamo il protagonista di questa ricerca, pubblicata inizialmente nel 1996 quando Roland Boese et al. annunciano la sintesi del fulvalene tetracarbonil-dirutenio, un composto di coordinazione con la rara proprietà di accumulare l’energia termica convertendola in energia chimica on demand.
In questi anni i ricercatori hanno tentato di comprendere i meccanismi che regolano questo processo, giungendo ad un importante risultato. Quando la molecola assorbe la luce del sole, cambia la propria configurazione molecolare, assumendo una forma ad alta energia pur mantenendo un’elevata stabilità che si protrae a tempo indeterminato.
Per utilizzare l’energia così immagazzinata, è sufficiente stimolare la molecola con un particolare catalizzatore, oppure un piccolo spunto termico, tale da consentirle di varcare la soglia energetica che la rende stabile, rilasciando così l’energia conservata e ritornando allo stato primitivo, pronta per far ripartire il ciclo dall’inizio. Da notare che in questo processo non si generano emissioni, scarti e non si verifica l’usura dei materiali, è semplicemente un’alternativa rinnovabile secondo un approccio di tipo termochimico, in cui l’energia viene conservata come in un carburante reversibile, stabile per un lungo periodo, utilizzabile ovunque se e quando necessario.
Durante le ricerche è emerso che esiste un passaggio intermedio che svolge un ruolo importante, spiega Jeffrey Grossman, Professore Associato di ingegneria energetica presso il Dipartimento di Scienza dei Materiali e Ingegneria al MIT. In questa fase intermedia, la molecola forma una configurazione parzialmente stabile tra i due stati noti precedentemente, una scoperta inattesa. Il processo a due fasi facilita la comprensione dell’estrema stabilità, e spiega anche perché il processo è facilmente reversibile e perché sostituendo il rutenio con altri elementi finora non ha funzionato.
Il problema della rarità del rutenio e il suo costo rimangono ancora sfide irrisolte, ma ora che il meccanismo fondamentale del funzionamento della molecola è stato compreso, dovrebbe essere più facile trovare altri materiali che presentano lo stesso comportamento. Questa molecola non è il materiale adeguato, ma è la dimostrazione che esiste una terza soluzione con potenzialità estremamente competitive.
Grossman prevede di collaborare con Daniel Nocera, il professore di chimica che abbiamo già incontrato in un mio articolo precedente a proposito del borato di nichel, per affrontare l’applicazione dei principi appresi da questa analisi, implementare materiali più economici in grado di riprodurre lo stesso processo reversibile. L’accoppiamento stretto tra progettazione computazionale e sintesi di materiali sperimentali, seguiti dalla loro validazione, dovrebbe ulteriormente accelerare la scoperta di nuovi promettenti candidati alla poltrona di combustibili solari termici reversibili.
In merito all’energia solare, non è mai superfluo ricordare che dal sole riceviamo in ogni istante gratuitamente e senza dipendere da un monopolio, 50 milioni di GW, e che (parole di Carlo Rubbia), un ipotetico quadrato di specchi, lungo 200 chilometri per ogni lato, potrebbe produrre tutta l’energia necessaria all’intero pianeta. E un’area di queste dimensioni equivale appena allo 0,1 per cento delle zone desertiche del cosiddetto sun-belt. Per rifornire di elettricità un terzo dell’Italia, un’area equivalente a 15 centrali nucleari da un gigawatt, basterebbe un anello solare grande come il raccordo di Roma.
Fonti: Physorg, MITnews