Torna il gruppo toscano, ora un trio, visto tra l’altro poco tempo fa in sede live. Uno di loro ci raccontò del nuovo percorso che stavano intraprendendo – ce ne accorgemmo subito – e col nuovo lavoro le cose confermano determinati cambiamenti. Se sul palco la spinta avant è arrivata dunque a un buon livello, qui siamo come incastrati in una via di mezzo (ma “Inlay Fern”, con alla tromba Marco Baldini dei Blutwurst, ci fa capire meglio da che parte tira il vento). Questo Alchemy To Our Days (cento esemplari in cassetta per la Yerevan Tapes) si muove tra psichedelia sempre nera e impenetrabile, e testimonia di una rapida e comunque feconda fase di passaggio. La stordente “Burāq” ci accompagna in quest’antro buio, grazie a chitarre in ultra-fuzz e incedere quasi sacrale (con inglobata una registrazione effettuata al Tempio di Gerusalemme da Giovanni Lami). Come a sottolineare poi l’atmosfera generale da jam infinita, arriva la tempesta sonica di “Conversion To Wha Wha”, con Virginia Genta (Jooklo Duo) al sax, che dà quel tocco di selvaggia esoticità, e ricordiamo che i ragazzi hanno da sempre dimostrato di saperla padroneggiare senza sembrare mai dei banali imitatori. Il viaggio si fa ancora più straniante nella concentrica “Black Son From The Ashes”, dove pare di intravedere i fantasmi del “minimalismo”, ma da un’ottica sempre piuttosto oscura e metallica, e si continua sul medesimo sentiero nella delicata, e lunga, “Peak Of Meditation”. Chiude la tempesta perfetta di “God Discent”, probabile modo per portare a temperature elevate un concetto di musica che non ha mai fatto mistero del proprio lato più selvaggio e affine al noise. Cos’altro aggiungere? Che oltre alla stoffa – quella c’era già prima – ora ci sono i fatti, messi su nastro da una band che fa dell’irrequietezza la propria peculiare cifra stilistica. Speriamo possano fare ancora molta strada.
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