Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia ha rappresentato un’occasione per ridare voce ai tanti studiosi che ritengono necessaria, con sincerità di valutazioni, una revisione storica degli eventi risorgimentali che investirono il Mezzogiorno. In effetti, la letteratura classica del Risorgimento appare in buona parte lacunosa e faziosa perché esalta la politica, le azioni e le virtù degli “Eroi” e dei “Padri della Patria” e trascura, invece, quei tanti e noti episodi nei quali la Guardia nazionale si rese protagonista di atti d’inaudita violenza nei confronti delle popolazioni civili del Meridione. Ai momenti di grande tensione sociale che caratterizzano il Sud dopo l’attuazione del nuovo ordine giuridico-politico-economico imposto dal Regno d’Italia, questa stessa letteratura concorre a sminuirne l’importanza perché riduce tale “stato di cose” a un insieme di semplici manifestazioni d’insofferenza popolare nei confronti del vivere civile. Aggiunge, inoltre, che tali agitazioni risiedono nell’indole stessa di una parte del popolo meridionale poiché da sempre esso ha mostrato una certa riluttanza a vivere nel pieno rispetto della legalità. Tutto ciò, allora, diventa la premessa di una narrazione storica nella quale le attività di persecuzione e di repressione civile si trasformano in gloriose imprese attuate in difesa della stessa “salute” meridionale o, come si legge, “in difesa dei nuovi Italiani”.
Se è pur vero che dal 1799, ovvero dall’anno della Rivoluzione Napoletana, sino all’Unità d’Italia le rivoluzioni nel Regno delle Due Sicilie sono state frequenti, è pur vero che esse si generarono, così come la stessa Storia documenta, perché nella coscienza popolare si erano profondamente radicati i principi dell’uguaglianza e della libertà di ogni cittadino. Questa coscienza, che è civile e non delinquenziale, si manifestò con la volontà di sovvertire gli ordini pre-costituiti nei quali dominava ancora il principio, tenuto fermo sino all’ultimo regnante borbonico, dell’assolutismo regio. E’ evidente, quindi, che buona parte della popolazione meridionale era ormai pronta a un cambiamento radicale e perciò in molti confidarono nella causa unitarista vedendo in essa l’occasione per costituire uno stato di diritto. Nel Mezzogiorno, però, l’avvento del Regno d’Italia non cambiò lo stato primitivo delle cose perché obiettivo principale del nuovo Stato era di risanare la sua economia e cioè le disastrose finanze ereditate dall’ex Regno di Sardegna. Per tale motivo il Nord drenò dal Sud tutte quelle risorse di cui necessitava venendo in tal modo a crearsi uno stato di crisi economica generale nel quale sarà coinvolta anche quella ricca borghesia che deteneva le fonti di ricchezza e, di riflesso, tutta la popolazione meridionale la quale, divenuta ancor più povera, cercherà di contenere il suo stato d’indigenza ricorrendo all’emigrazione di massa.
La criticità del momento generò, naturalmente, tutte quelle tensioni sociali che sfoceranno dapprima nel netto rifiuto del nuovo sistema di governo, così come già in parte era disconosciuto quello borbonico, per poi giungere alla formazione della ribellione collettiva. In un clima così teso, aggravato ancor più dalla povertà diffusa e dalla mancanza di prospettive, il non rispetto della legge diventò sia alimento per la criminalità pura, essendo questo elemento endogeno di ogni società, e sia l’incipit per una vera e propria espressione politica che, per le diverse contingenze del tempo e per la coercizione del popolo al rispetto delle leggi imposte, non poté trasformarsi in una base ideologica dalla quale movesse poi la vera e propria lotta di classe.
Molte volte, tuttavia, i due aspetti tendono a fondersi perché, specialmente dopo il ’61, i briganti furono garanti di un ordine sociale capace di dispensare alle fasce più povere della popolazione, che col nuovo governo avevano perso ancor più il diritto ad avere una dignità, quel pane e quei denari sottratti con violenza e stragi di famiglie locali abbienti. Non era raro, inoltre, l’instaurarsi di un vero e proprio rapporto di mutuo soccorso tra poveri contadini e famigerati briganti perché, questi ultimi, capaci di garantire un precario circuito di solidarietà in quelle terre dove il garante legale era divenuto più sanguinario del brigante stesso.
Incentrando, allora, l’analisi del “brigantaggio” sugli atti di violenza e, di conseguenza, smentendone sino a negarne le connotazioni politiche, la letteratura storica classica non solo ha erroneamente accomunato sia l‘efferata delinquenza e sia le manifestazioni di insofferenza popolare ma, operando in tal senso, ha anche sminuito, se non a volte persino celato, la portata storica di un fenomeno che può, senza credere di errare, inserirsi tra quelli che furono prodromi di una vera e propria guerra civile italiana.
Contribuire a evidenziare la necessità di rileggere e riscrivere la storia del nostro Risorgimento non significa porre le basi di discussione per condannare l’Unità d’Italia, oppure per disprezzare il valore della nostra unità nazionale o, ancora, offendere la memoria di chi ha combattuto e creduto veramente in quell’ideale di fratellanza e di libertà quanto, invece, epurare dalle falsità una storia che non ha bisogno di essere ipocritamente legittimata perché essa è il nostro vissuto, bello o brutto che sia, dal quale bisogna attingere per comprendere il presente e costruire il futuro.