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Mi divora / romanzo

Creato il 04 marzo 2016 da Philomela997 @Philomela997

Mi div-HarmonyChiusi il diario, uscii di casa e raggiunsi la fermata dell’autobus, nel buio lucido della sera d’autunno. Ebbi tempo di fumare due sigarette e sorbirmi l’altarino di una coppia in procinto di scoppiare prima che passasse il 68. Andai a sedermi in fondo e la sensazione di rilassamento dei muscoli a riposo mi inondò prepotente, ricordandomi che non dormivo da troppo tempo. E poi Davide, come non avevo mai osato pensarlo.

Riscuotendomi di soprassalto, la domanda mi balenò in mente come succedeva ogni mattina da anni: Ho sognato Davide?

Pensarlo è molto più semplice e desiderarlo è sempre più semplice, così naturale. Esistono solo i corpi e la loro volontà. Ero sudata, ansimante. Lo avevo sognato, sì. Ma ero sveglia o stavo dormendo? Non lo sapevo più, avevo riposato sì e no dieci ore in tre notti, dopo la rivelazione su msn. Non c’era più differenza tra la percezione di me stessa dormiente e quella di me stessa sveglia. Ma era necessario che io capissi se era un sogno o una fantasia. Ne andava dello statuto ontologico dei miei pensieri. Se fosse stato un sogno avrei potuto dire a me stessa che non era colpa mia, ma solo una conseguenza della mia ossessione e in qualche modo sentirmi innocente, scaricando la colpa su una patologia impersonale.

‘Da quando hai bisogno di sentirti innocente?’

Da quando posso scaricare la colpa su di te, Jenny. Ma non mi pressare. Sai che odio i sogni.

Se fosse stata una fantasia la colpa sarebbe andata indiscutibilmente a me. Come teoria non valeva niente. Lo so, e lo sapevo anche mentre la formulavo. Freud mi avrebbe riso in faccia! Entrambe le cose, sogni e fantasie, sorgevano dagli impulsi sessuali radicati nel nostro inconscio, nell’Es, parte costituente del nostro essere soggetti. Dunque, se avessi dovuto cercare un colpevole, comunque sarebbe stata la mia soggettività. Non avevo scampo. Ma ero stanca e volevo mentire a me stessa. Dio, quanto odiavo i sogni. Su di loro non avevo alcun potere, addirittura meno che su Jenny.

Mentii tanto bene da scegliere la prima possibilità: era sicuramente un sogno. Mi ero appisolata un attimo sull’autobus e l’inconscio aveva montato liberamente immagini prese dalla quotidianità e dai film scadenti di seconda visione. Così, casualmente.

Ma non funzionava. Anche se fosse stato un sogno era indicativo del fatto che avevo perso il controllo. Sembrava una delle notti impetuose che mi raccontava Meri, non aveva niente di mio, del mio controllo spasmodico.

La mia ossessione si stava accompagnando a una perversione tutta sessuale, sporca. Stavo scadendo nel pornografico?

‘In realtà, scommetto che non ne sei affatto pentita.’

Avevo avuto un orgasmo, in autobus, tra la gente, ipnotizzata dal finestrino e senza sfiorarmi. Questo era probabilmente il motivo più consistente della mia preoccupazione. Ma non mi aveva notata nessuno. Come avrebbero potuto? Neppure io ero sicura di essere sveglia! Maledizione, in quel momento lo odiavo. Lo odiavo perché il mio era solo un sogno. Ma già in quel momento faticavo a distinguere il ricordo dalla fantasia. Nella mia mente erano già la stessa cosa. Il tempo appannava le sensazioni realmente provate, mischiandole con quelle immaginate, rendendo il tutto ugualmente irreale. Il legame che il ricordo aveva col reale svaniva giorno dopo giorno, notte dopo notte, sogno dopo sogno.

‘Forse stiamo impazzendo più di quanto già non siamo.’

Perché ti ostini a parlare al plurale? Lo sai che mi irrita!

Contemporaneamente, determinare l’origine delle mie immagini mentali stava diventando di importanza fondamentale. Mi capitava sempre più spesso, negli ultimi giorni, di fare allusioni a cose non accadute, solamente immaginate. Non volevo pensarci né tanto meno ammetterlo, ma era così. Me ne rendevo conto a volte appena prima di aprire bocca, a volte soltanto dallo sguardo stranito delle persone a cui stavo parlando. La scena assumeva allora un aspetto inquietante e bizzarro, e mi ritrovavo a balbettare scuse cambiando rapidamente argomento.
Questo non doveva succedere. Che la consapevolezza di me fosse minacciata da squarci tanto ampi non poteva succedere. Andava contro ogni razionalità e contro tutto il lavoro che avevo fatto su me stessa. Non potevo lasciare che il mio inconscio prendesse il sopravvento e diventasse un’entità a sé stante, quasi avesse una sua propria capacità di elaborare concetti e una sua propria volontà in grado di sovvertire la mia.

Io determinavo il mio volere. Io aderivo a uno specifico pensiero, acconsentivo al piacere di una specifica fantasia, consideravo le conseguenze e ne decretavo la fine. Così era e così doveva essere.

‘Così volli che fosse!’

Esatto, ma non fare citazioni che non capisci.

Continuai a ripetermelo scendendo i gradini della fermata, guardando fissa davanti a me lungo la strada vuota, camminando a passo spedito sotto il viale alberato.

Quando fui di fronte al condominio di Meri ne ero fermamente convinta: ci sarei riuscita, distinguendo bene l’immaginato dal vissuto, il reale dall’irreale. Come avevo fatto poco prima. La determinazione a non perdere il controllo della mia mente era forte. Ma già stava sfumando, nel ricordo, la distinzione tra sogno e fantasia. Mi ero mai veramente addormentata negli ultimi giorni?

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