Mi sono innamorato di te
perché non avevo niente da fare,
il giorno volevo qualcuno da incontrare,
la notte volevo qualcosa da sognare.
Mi sono innamorato di te
perché non potevo più stare solo,
il giorno volevo parlare dei miei sogni,
la notte parlare d’amore
Ed ora che avrei mille cose da fare
io sento i miei sogni svanire
ma non so più pensare
a nient’altro che a te.
Mi sono innamorato di te
e adesso non so neppur io cosa fare,
il giorno mi pento d’averti incontrata,
la notte ti vengo a cercare.
la notte ti vengo a cercare.
on questa canzone del 1962 Luigi Tenco è riuscito a esprimere di più e meglio ciò che secoli di teorizzazioni, osservazioni e innumerevoli testi non sono stati in grado, nonostante le ambizioni, a esporre sulla tematica dell’innamoramento. Sì, il Simposio di Platone resta ancora un’opera capitale, poche altre possono stare al suo livello, ma i tentativi a cui abbiamo assistito finora di legittimare o spiegare la logica che porta una persona a sentirsi attratta da un’altra, e non solo fisicamente, hanno riempito gli scaffali di carta straccia. Con poche frasi Tenco ha riassunto perfettamente la dinamica nuda e cruda di questo momento che avvicina i corpi e le menti, non ha avuto bisogno di imbellettare la materia o creare formule semiscientifiche, come fanno certi novellatori odierni che tentano di mostrarsi all’altezza di un compito che invece li rende sempre più incompetenti, banali e sciocchi (non facciamo nomi, ma ci siamo capiti…). E comunque il non avere niente da fare come caratteristica cardinale dell’innamoramento non lo si intenda a mo’ di ozio dello sfaccendato, qui Tenco è chiaro nel significato dei suoi assunti: invece di girare intorno alla questione l’artista geniale di Cassine afferma quanto a molti, quasi tutti, dispiace ammettere, cioè l’incapacità umana di restare soli con se stessi. Ed ecco che per poca conoscenza e scarsa stima del proprio Io ci si trova disoccupati senza la centralità di ciò che siamo, sbandati qua e là, in attesa di qualcuno che ci riconosca, ci chiami e ci faccia sentire finalmente esseri esistenti dandoci un nome e un ruolo. Tenco ha avuto fegato, ha saputo spazzare via tutta l’ipocrisia, il birignao sentimentaloide di chi finge di smontare l’impalcatura egoistica attorno al palazzo dell’innamoramento per innalzare un monumentum ære perennium dell’altruismo. No, c’è di più nel testo della canzone di Tenco, c’è la presa piena di coscienza della profonda contraddizione che ci costituisce e ci fa sentire in tutta la nostra menzogna degli autentici simulatori in cerca di un costume da esibire insieme a un copione da recitare. Tenco ci mette a nudo e questo ci dà fastidio…
Non ho affermato che bisogna starsene da soli e non provare mai a volare con le ali dell’innamoramento, ho cercato soltanto, e forse mi sono sbagliato, di assaporare nelle parole di Tenco la condizione genuina e profonda dell’essere umano riassunta mirabilmente in poco spazio. Sono certo di non essere stato capace di eguagliare la sintesi eccezionale di Tenco, però almeno io lo dico: ho scritto questo perché non avevo niente da fare…
© Marco Vignolo Gargini