Mia moglie e io è un romanzo d’esordio, un bel romanzo segnalato alla 25esima edizione del Premio Calvino, scritto da Alessandro Garigliano, catanese, classe 1975. È un romanzo costruito sull’architettura di due tempi – non verbali, perché lì, fra le pagine è all’imperfetto che ci si esprime.
Il tempo determinato, che è quello della precarietà, dell’insicurezza, dell’affannarsi a cercare un lavoro e a trovarne alcuni, a scadenza, mai rispondenti alle aspettative, mai confacenti al curriculum studiorum che uno, faticosamente, si è costruito. Nel tempo determinato ci si arrabatta, fra mille lavoretti che non hanno alcuna relazione fra loro né tanto meno con chi li fa: schedatore di libri e riordinatore dei medesimi sugli scaffali in una libreria kafkiana; impiegato in un ufficio di orientamento per il lavoro ma anche, contemporaneamente, costretto a dare indicazioni stradali, per orientare la gente in tutt’altri percorsi; carpentiere e di nuovo, insieme, psicologo delle urine dei camionisti. La vita di un precario è spesso borderline, con tempi infiniti da riempire. E meno male che, chi legge, ha un’alternativa valida per farlo, anche se è un’attività non esente da rischi, la lettura, perché provoca il livore delle labbra e il lento congelamento delle estremità.
«Nuotando imperterrito a tempo determinato ero l’unico che non risparmiava licenziandomi in tronco dopo un paio di mesi; solo io continuavo ostinato a puntare su quello che ero».
E poi c’è l’altro tempo, il tempo indeterminato, quello in cui si collocano le grandi, definitive progettualità. Quel tempo, oltre che da Lui è occupato Lei, una moglie fatta di meravigliose complicanze e di strane manie che non hanno spiegazione: perché Lei non chiude mai le porte, non spegne gli elettrodomestici, volatilizza il passato inscatolandolo, ponendogli sopra un’etichetta variopinta e nascondendolo per sempre. Lei non ammette distrazioni, ma non concede la possibilità di orientarsi facilmente tra i suoi pensieri. Il suo raccontarsi non ha linearità, manca spesso di conclusioni, ma deve essere seguito, e compreso.
«Si trattava di un’altra ossessione, dissimile da quelle che avevo annotato negli anni, come non chiudersi le porte alle spalle o non spegnere gli elettrodomestici: mia moglie faceva sparire il passato trascurato un momento. (…) Era una donna stupenda: una feticista della catalogazione».
E in quell’altro tempo si muove pure un’altra figura, che quella dimensione di indeterminatezza tendente all’infinito la bazzica con soddisfazione e che perciò Lui inizia a blandire come fosse un’amante. L’Altra è la morte. Un’idea costante, per certi versi geniale, che la coppia asseconda e coltiva come fosse un fiore prezioso. Lui e Lei hanno la folgorazione di dare un nuovo volto al selfie, fotografandosi e girando video come se fossero il risultato di efferati delitti o di morti astruse. Come se fossero cadaveri, di cui ricostruiscono meticolosamente la postura, il trucco, i primi segni di decomposizione. La morte occupa, in una mente precaria, uno spazio importante, è come una compagna con cui dialogare, giocare, alla quale affidare una macabra progettualità.
«Era una depressione aggraziata che entrava in punta di piedi, mi avvolgeva con braccia giganti e, sebbene sentissi che poteva strozzarmi, nella mia perversione recente, in quei giorni di magra, quando l’impegno sociale si faceva sempre più rado, quell’ombra di morte pareva infondermi una sicurezza deviata, una rassegnazione impotente dentro cui potevo cullarmi come un malato ebbro della sua malattia: rannicchiato sul letto al riparo del mondo là fuori».
E la morte cos’è? Una speranza, forse, molto più solida di quella di un lavoro che disillude, di una strada che si fatica a trovare. Un meraviglioso passatempo che, però, non è esente da rischi. Perché quando ti avrà completamente assorbito, be’, allora è probabile che tu non ritrovi neppure una briciola di quel che eri.
di Silvia Ceriani
Alessandro GariglianoMia moglie e io
LiberAria
Bari, 2013
«Io mi fidavo di te, cara morte. Avrei voluto imitarti. Avrei voluto abbracciarti, non per forza diventare il tuo amante, ma almeno giocare con te qualche sera, essere un capriccio che ti allietava una notte, per una notte sentire il magnifico vuoto, auscultare nel modo più prossimo l’infinito muoversi immobile. E abbracciare tutto questo che avevo spesso sognato di avere per resistere alla mia esistenza che scorreva labile senza un motivo».
La recensione è stata illustrata con i disegni di Laurie Lipton