Ho deciso di leggere Mia moglie e io, esordio di Alessandro Garigliano pubblicato per Liberaria a Novembre 2013, dopo aver letto un articolo entusiastico su una rivista d’approfondimento. Quando il libro è arrivato, si è andato ad affastellare ad un’altra decina di libri che avevo accumulato sul mio comodino (che presto diventerà una perfetta esemplificazione del verbo straripare*); non ricordavo neanche più cosa m’avesse colpito, assorbita com’ero già dalle altre cento letture a cui mi stavo (mi sto) dedicando. Ho iniziato a leggerlo quindi quasi stancamente, avida di scoprire subito quale fosse il motivo per cui l’avevo scelto. Ebbene, trovarmi davanti a Mia moglie e io in questo modo è stato ancor più stupefacente: sono stata letteralmente travolta dalla materia linguistica e ontologica della storia.
Il romanzo è suddiviso in due tempi, determinato e indeterminato. Arrabbattarsi, però, è sempre l’arte e il modus vivendi del suo protagonista. Commesso di una libreria o impiegato di un’agenzia per le risorse (dis)umane, il nostro eroe è sempre lui, quello delle mille e uno paranoie, dei cento tic, delle strane fisime e degli infiniti possibili. Come se il precario, l’instabile, l’insicuro, fossero l’unica certezza assodata del nostro stile di vita. Nostro, perché è impossibile non calarsi nelle situazioni comiche e un po’ paradossali, direi vagamente Kafkiane, che Garigliano dipinge e che sicuramente gran parte della fauna medio-giovane italiana ha vissuto veramente (ahinoi): arrivati ai trent’anni, chi più chi meno, con una laurea e nessun indirizzo preciso in mano, si passa da un lavoro all’altro, in cerca di qualcosa che non è neanche più la stabilità; e lo si fa con quello stesso senno e rigore che si immette negli sport cui ci si appassiona (in questo caso, il nuoto), sortendo gli stessi, inutili, effetti, circa il raggiungimento di una soddisfazione e realizzazione personale.
«Per quanto si possa tentare di abbracciare una volta per sempre l’atarassia come unica filosofia di vita, appare sempre, nel bel mezzo della più rassicurante disperazione, un’epifania di antico ottimismo.» È l’antica voglia di vivere che torna al sopravvento, le velleità sopite che talvolta si risvegliano assetate, con un desiderio di riscatto che sembra provenire da lontano, piuttosto a un’altra generazione che a quella cui appartiene lo stesso protagonista. E nel mentre, tutte le forze di quest’io narrante sono dirette alla santificazione dell’amatissima moglie. Per la quale si inventano set cinematografici degni di David Lynch e per cui non è mai troppo tardi organizzare/creare alcunchè.
Ma Mia moglie e io non ha rapito il mio interesse “soltanto” per i motivi detti finora: forse quello molto più denso e pregnante consta proprio nel suo stile. Una penna forte, puntuale, precisa, in cui le parole sono tutte giustapposte e calibrate ad arte – e allora sì, che è luce d’epifania. Una scrittura fondante, unico faro illuminante di una vita che altrimenti brancolerebbe nel buio dell’indeterminatezza.
Qualunque cosa scriva Garigliano la scrive bene, benissimo – come se fosse nata per essere scritta così, come se fosse una definizione da vocabolario; questa scrittura feconda e corroborante rappresenta l’appiglio cui aggrapparsi nel vuoto generale, un appiglio sicuro, deciso, che certamente farà splendere le miserie di questa giovane coppia precaria cui la vita esplosiva non si rassegna a essere risucchiata dal tran tran quotidiano.
*ecco, vedete, un esempio: io ho usato il verbo straripare, che rende l’idea, sì, ma non aderisce perfettamente alla realtà delle cose. Garigliano avrebbe trovato sicuramente un verbo più azzeccato, che non solo avrebbe reso al meglio l’idea e descritto pienamente l’immagine che voleva rendere visibile attraverso la carta, ma vi avrebbe anche stupito, per la sua rarità e raffinatezza, lasciandovi assaporare, quasi fosse un cioccolatino da sciogliere in bocca, quella parola inconsueta eppure così giusta.
Alessandro Garigliano, Mia moglie e io, Liberaria, 2013, € 15