Miami riparte da Dragic e Whiteside: che futuro attende gli Heat?

Creato il 04 marzo 2015 da Basketcaffe @basketcaffe

Che n’è stato dello White Hot? Che n’è stato dei Miami Heat? Come ha fatto una squadra arrivata alle Finals per 4 anni consecutivi ad arenarsi su uno squallido settimo posto (7!) con un record di 26-33? L’American Airlines non fa più il pienone, in giro i ragazzini con la jersey numero 6 degli Heat si sono come volatilizzati (al massimo ora ne indossano una gialla e amaranto con il 23). Volete una risposta? Vi do un nome: LeBron Raymond James.

Ripartiamo dall’estate 2010. I Miami Heat (entrati in NBA nel 1988) vengono da due stagioni in chiaroscuro, culminate entrambe con l’eliminazione al primo turno playoff. La squadra, diretta dal santone Pat Riley e allenata dal coach americo-filippino Eric Spoelstra, ha lasciato per strada Zo Mourning e Shaq e vive esclusivamente delle giocate di uno già scricchiolante Dwayne Wade. In città però si respira aria d’ottimismo, forse perchè quel colpo di coda che in un attimo può stravolgere gli equilibri della Eastern Conference e dell’intera Lega è dietro l’angolo; a Miami, infatti, arrivano Chris Bosh e LeBron James: ha così inizio l’era dei Big 3, l’era dello White Hot. 
Nei 4 anni successivi la franchigia farà piazza pulita delle rivali ad Est e per due anni consecutivi anche di quelle ad Ovest, arrendendosi solo ai Dallas Mavericks nel 2011 e ai San Antonio Spurs l’anno scorso. 
Quel roster fortissimo però non era solo big three perchè composto per intero da gente tosta e navigata: primo fra tutti Ray Allen, ma anche Shane Battier, Mike Miller, Mario Chalmers, Chris Andersen, Norris Cole, Rashard Lewis e Udonis Haslem.

Come spesso accade in NBA, però, ogni ciclo è destinato a terminare, soprattutto con il sopravanzare dell’età e degli infortuni dei giocatori: la scorsa estate diedero l’addio alla pallacanestro Shane Battier, Rashard Lewis e Ray Allen (ancora dubbio il suo futuro), l’anno prima era andato via pure Mike Miller destinazione Memphis e poi Cleveland; allo stesso tempo D-Wade era sempre più affetto da cronici problemi a ginocchia e caviglie. Insomma, il sentore che il castello di carta costruito da Riley stesse per crollare da un momento all’altro era nell’aria; e allora il giocatore simbolo della franchigia, quel Lebron James, capace con le sue capacità e con il suo carisma di trascinare a traguardi gloriosi una squadra di per sè fortissima, decise di diventare free-agent e tornare a Cleveland. Lo stesso Bosh, svincolatosi pure lui, sarebbe stato lì lì per diventare un nuovo giocatore di Houston, ma alla fine i 118 milioni di dollari in 5 anni messi sul piatto da Riley&Co. hanno avuto la meglio sull’ex Toronto che decise di restare in quel di South Beach.

Con la conferma della vecchia ossatura composta da Wade, Chalmers, Andersen e Haslem e con la ri-firma del centro con il numero 1 (il quale è stato spesso definito da Spoelstra il più importante dei Big 3), in estate sono arrivati Luol Deng da Cleveland, voglioso di riscatto dopo qualche stagione di alti e bassi, Danny Granger dai Clippers, l’ala grande Josh McRoberts dai compianti Charlotte Bobcats, Shawn Williams, James Ennis e tale Hassan Whiteside dalla D-League, oltre a Shabazz Napier e Tyler Johnson dal Draft 2014. Sul nuovo roster non c’erano sicuramente le aspettative dell’era “King James”, ma in pochi avrebbero immaginato che la franchigia, in una Conference poco competitiva come la Eastern, avrebbe viaggiato costantemente sotto il 50% di vittorie, a cavallo fra settimo e ottavo posto. L’ultima partita, prima della trade deadline del 19 febbraio, era stata la sconfitta in quel di Cleveland per 113-93 che è valsa, a Miami, lo sconfortante record di 22 vittorie e 30 sconfitte.

La trade deadline del 19 febbraio, però, può essere il crocevia della stagione dei Miami Heat: svoltare verso posizioni più congeniali a una squadra che vanta tre titoli NBA o restare nel limbo della discontinuità cercando almeno di agguantare un biglietto per il post regular-season. Cos’è successo di tanto importante? Semplice, a South Beach è arrivata una delle migliori point-guard della Western Conference, lo sloveno Goran Dragic (16 punti 3.5 rimbalzi 4.2 assist in stagione) che, giusto per non farsi mancare nulla, si è portato anche suo fratello Zoran, ala piccola di ben più modeste medie (0.9 Punti 0.4 Rimbalzi 0.1 Assist); entrambi sono arrivati da Phoenix in cambio di Danny Granger, Norris Cole (poi finito a New Orleans), Shawn Williams, Jordan Hamilton e due scelte al primo giro.

Miami, però, non ha avuto nemmeno il tempo di godersi l’effetto “Slovenia” sui suoi tifosi che è stata sconvolta da una notizia già di per sé terrificante, accresciuta dall’importanza che il giocatore riveste nella squadra: Chris Bosh, che ha pur partecipato e vinto lo Shooting Star Competition all’All Star Game 2015, è affetto da una malformazione provocata dalla presenza di coaguli di sangue nei polmoni, lo stesso problema di salute che poche settimane prima aveva stroncato la vita a Jerome Kersey, ex dei Portland Trail Blazers. Per la cronaca, il lungo degli Heat è stato già dimesso dall’ospedale della Florida dove era stato operato qualche giorno fa e fortunatamente sta bene. Il problema di salute è stato risolto, ma il riscontro che interessa in chiave sportiva è: “out for the season”.

Senza Bosh ma con un Dragic in più in serbatoio, quali sono, allora, i possibili risvolti per il resto della stagione? Naturalmente l’assenza di CB1 peserà come un macigno sul prosieguo della stagione e soprattutto in ottica playoff (ammesso che Miami ci arrivi). La squadra, per nulla brillante in precedenza, è difatti ventisettesima nel rapporto punti fatti/punti subiti; senza il lungo di Dallas, che era primo nella squadra per punti realizzati con 21.1 di media, secondo in rimbalzi con 7 a partita e terzo nel player efficiency rating (PER) con un discreto punteggio di 20, alle spalle di D-Wade e Whiteside, si rischia il tracollo definitivo.

A parte le statistiche, peserà il contributo tecnico che Bosh forniva alla squadra; è un giocatore competitivo, razionale, abilissimo in post basso e al tempo stesso dalla media-lunga distanza, non ha mai un colpo di testa, sa mettersi a servizio della squadra e al tempo stesso caricarsela sulle spalle (i playoff 2014 ne sono la testimonianza). Inoltre, il rischio è quello di lasciare scoperto il ruolo di Power Forward per il quale, ad oggi, si contano disponibili solo gli ultratrentenni Andersen e Haslem. Da non dimenticare, infine, gli effetti e le reazioni emotive provocate dall’assenza del leader stagionale dei Miami Heat, che dopo aver perso Lebron in estate, ora dovranno fare a meno anche di Bosh, giocando le loro carte su uno Wade a mezzo servizio.

Pat Riley, però, non è certo il tipo da piangersi addosso e, come detto in precedenza, ha piazzato il colpo Goran Dragic sul gong della Trade deadline. Il nativo di Lubiana è un tipo che flirta spesso con la doppia-doppia (43 in 9 anni di NBA), è un eccellente tiratore dalla media-lunga distanza (tira con più del 50% dal campo), ha grande capacità di regia (5.4 la media degli assist nelle 5 partite in maglia Heat); insomma, è un giocatore che, piazzato in un roster attrezzato, è in grado di fornire il salto di qualità alla squadra. Goran, probabilmente, andrà a tappare il buco playmaker di cui i Miami Heat hanno sempre sofferto negli anni passati: perchè è vero che con Lebron in quintetto il pallone in mano ce l’aveva sempre lui, perchè è vero che Wade gioca da Shooting Guard ma è un eccellente passatore, però il Rio Chalmers, apparso soprattutto nei playoff dell’anno scorso, è risultato essere il punto debole della macchina perfetta guidata da Erik Spoelstra. Il prodotto di Kansas l’anno scorso ha avuto un record di 6.4 punti, 3.6 assist, 2.5 rimbalzi a partita: medie evidentemente sotto le attese rispetto alle previsioni che poggiavano sul numero 15. Rio sarà comunque un elemento importante nella rotazione, ha vinto due anelli, ha un discreto caratterino e sicuramente il suo apporto dalla panchina sarà fondamentale per il futuro.

A Miami è poi recentemente esploso il fattore W, W come Whiteside. Risse a parte, Hassan Whiteside è uno di quei rarissimi giocatori che, dopo aver passato la sua ancora breve carriera tra infortuni e campionati di second’ordine, torna in NBA e diventa d’un tratto dominante. Colpo di fortuna o straordinaria mossa di mercato di Riley? Come nella vita, probabilmente la verità sta nel mezzo; cioè, il giocatore vantava delle medie discrete in D-League, poteva essere una buona alternativa per allungare le rotazioni di Spoelstra, ma nessuno (nemmeno lui) avrebbe mai osato scommettere un dollaro su quello che Hassan sta realizzando adesso partita dopo partita. La sua esplosione coincide con il punto fin qui più alto della sua carriera: il 25 gennaio scorso gli Heat sono in scena a Chicago contro i Bulls; Whiteside si rende protagonista di una notte irripetibile: in 25 minuti di gioco mette a referto una tripla doppia da 14 punti, 13 rimbalzi e 12 (dicasi 12) stoppate!

Successivamente ha continuato su questi ritmi e ha fin qui realizzato la bellezza di 13 doppie-doppie, è secondo in stoppate solo ad Anthony Davis con una media di 2.4 a partita, ha un average di 10.6 punti e 9.6 rimbalzi, è il primo della squadra nel player efficiency rating con uno sbalorditivo 27.67! Con le sue statistiche, sono aumentati anche i minuti di gioco: si è passati dagli 8/9 iniziali, ai 21 dopo la notte di Chicaco, ai 30 attuali. Recentemente Wade gli ha affibbiato la mansione di “proteggere il canestro e stoppare qualsiasi roba passi da quelle parti”: ha solo 24 anni e se riuscirà a mantenere questi ritmi, il ruolo di centro nel quintetto di partenza all’American Airlines Arena sarà di sua proprietà per molto tempo.

Infine, Luol Deng non sarà Lebron (d’altronde nessuno al mondo potrebbe sostituirlo), ma è un’ala piccola che vanta due convocazioni all’All Star Game, uno score in carriera di tutto rispetto con i suoi 15.9 punti e 6.2 rimbalzi di media a gara, una convocazione nell’All NBA Defensive Team nel 2012 ed è tutt’ora il quarto miglior marcatore nella storia dei Chicago Bulls (10286 punti). Quest’anno il nativo del Sud-Sudan vanta una media di 14.6 punti e 5 rimbalzi conditi da quasi due assist a partita, ma le sue statistiche sono nettamente in crescita dopo aver saltato qualche partita nella prima metà di stagione per un infortunio. Tutto ciò a dimostrazione del fatto che, con o senza Bosh, la qualità a South Beach non scarseggia particolarmente!

Si, questi Miami Heat possono fare a meno di Chris Bosh; o meglio potrebbero. Se Dwayne Wade, a discapito dei suoi 33 anni e del riacutizzarsi di problemi a ginocchia, caviglie, gomito (e chi più ne ha più ne metta), dovesse continuare a esprimersi sui livelli visti quest’anno (20.7 punti, 5.2 assist, 3.7 rimbalzi, 21.25 PER), allora i Miami Heat, avvantaggiati da una Conference mediocre, potrebbero dire la loro in chiave playoff. Nessuno si aspetta che vincano l’anello, né tantomeno la Eastern Conference; ma un quintetto di partenza con Wade-Dragic-Deng-Whiteside a Est non si vede di frequente e parlare di una finale o, più probabilmente, di una semifinale di conference in quel di South Beach non è certo dissacrante. Eccetto gli stratosferici Atlanta Hawks di quest’anno e i Cleveland Cavaliers di Lebron in rimonta (ah quel Lebron!), il quadro playoff della Eastern Conference potrebbe essere tranquillamente paragonato a una tonnara: Chicago dovrà fare a meno di Rose e Butler per un po’ di tempo (settimane o mesi?), Washington non è una schiacciasassi ed è in crisi nera, Toronto nel mese di febbraio ha perso 7 partite su 11 e pare essere in difficoltà, Milwaukee è un punto interrogativo, il resto delle pretendenti ha un record negativo.

Quale futuro per gli Heat? Il destino sembra essere dalla loro parte. Acquisendo continuità di gioco e di risultati possono davvero aspirare al ruolo di terzo/quarto incomodo nella Conference, ma c’è bisogno di pazienza e di dimenticare un passato tanto bello quanto lontano. Ci vorrà un po’ di tempo, ma lo White Hot tornerà presto a riscaldare i cuori dei fans di South Beach.

 

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