“…Perché un sentimento di giustizia, al quale era ben noto l'ordine imperfetto delle cose umane, lo rendeva incline […] a rassegnarsi, come a una giusta conseguenza, […] Ma se, per contro, gli diceva un sentimento non meno imperioso, […] che non era altro che una macchinazione, allora egli aveva, […] il dovere di procacciare, con tutte le sue forze, a sé stesso soddisfazione per l'offesa patita, e ai suoi concittadini sicurezza contro offese future…”.
Michael Kohlhaas, mercante di cavalli, si trova di fronte al consueto sopruso del nobilotto di turno, sopruso che gli procura il danno e la beffa alla quale non intende sottostare. La vicenda si sviluppa tutta intorno alla presa di coscienza da parte di Michael, di aver subito un grave torto, al quale, per coerenza di spirito, non può che rispondere tentando la via della giustizia. Sarà una via lunga e complicata, costellata di traversie e lutti, che si concluderà con il riconoscimento del torto subito dal mercante. Una sentenza che vedrà condannare il colpevole e portare lui sul patibolo, quale prezzo da pagarsi all’Imperatore per aver con tutto quel clamore così violentemente oltraggiato la pace nei suoi territori.
Simbolo di tutte le classi offese di questo mondo, Michele Kohlhaas, diviene eroe e martire per ogni epoca della storia, giacché di soprusi, come è risaputo, da sempre ne sono esistiti. Narrata in forma di fiaba da Heinrich von Kleist, con una ritmica molto ponderata e riflessiva, al punto che l’incalzare degli avvenimenti sembra all’apparenza scorrere in una irreale lentezza, la vicenda è vicenda aperta, tanto che ogni secolo, compreso l’ultimo scorso - e anche questo forse? - è riuscito a farla propria. Ma oltre ad incarnare la parabola dell’offeso, la novella diviene anche, con spirito quasi esistenzialista, metafora della capacità umana di trasformarsi in lupo da agnello, da offeso in vendicatore, calcando dunque nel nome però della giustizia e non del potere, gli stessi sentieri dell’originario aggressore, chiudendo quindi il cerchio di una natura che si autodistrugge e che infine, giustamente, merita la morte dopo la soddisfazione. Non solo, ma la giustizia che si adegua al giudice, a sua volta adeguato al padrone che lo ha eletto, a sua volta giudicato da un sovrano, unico forse a dover rendere l’ultimo conto di questa babele sociale dove ognuno pretende la propria di soddisfazioni, diviene il più alto prodotto di “quell’uom di multiforme ingegno” che infiniti addusse, e addurà, lutti, com’ebbe a recitare Omero già certo che siffatta natura si sarebbe di fatto autodissolta. Là dove niente viene dato per niente e dove cane non solo mangia cane ma anche gli agnelli, tutti, surrealmente e parossisticamente, seppur con profonda umanità, là dove secondo giustizia, messo su un piatto della bilancia un cadavere, ben lo si equilibra caricando l’altro con due anni di prigione. Ma non è saga questa della commiserazione o meglio dell’autocommiserazione, volendo in ciò annoverarsi più tra i simili al mercante. E’ indizio invece all’autoreponsabilità. Così il Kohlhaas di Von Kleist non solo attraversa i secoli letterari fin ad arrivare ai preludi del realismo, ma anche quelli del divenire sociale che lo confermano perniciosa malattia di quell’essere umano buono ma inetto, capace solo di partecipare, ignaro o non vedente, a quella sorta di darwiniana progessione sociale per la quale nessuno riesce a vedere se non chi lo sovrasta, dimenticando, se non altro, che anche il più feroce dei lupi ha in fondo bisogno di una bella mandria di agnelli per esercitare il proprio potere, che ogni capo ha bisogno di un popolo per essere tale, che ogni millantatore e falso elargitore di promesse, necessita in fondo di un grande e folto andirivieni di babbei. Una lettura che più volentieri si accorda con le voci di certo diffuso intellettualismo “à la page”, invocherebbe una lucida follia nella rivolta sempre più esasperata contro il mostro dell’ingiustizia che, seppur mascherata, riuscirà ad aver ragione di Michael, che compie la sua catarsi da cittadino in terrorista ed infine in martire. Ma appellarsi alla lucida follia è tardivo, laddove lucida follia vi è, certamente, ma nelle condizioni che hanno generato tali dinamiche sociali e non, più comodamente, soltanto nelle sue conseguenze, così come mestamente e pervicacemente si insiste, a voler sostenere dopo duemila e passa anni di storia sempre uguale.
Il testo integrale della novella, che si legge d’un fiato anche se un poco lunghetta, quanto per il ritmo letterario che, contrariamente all’incalzare narrante, è senza soste, senza capitoli, senza pausa alcuna: http://www.giugenna.com/wp-content/uploads/2011/09/MichaelKohlhaas.pdf