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Michel Kichka: “La seconda generazione” il peso della memoria dei padri

Creato il 09 maggio 2014 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

Michel Kichka: La seconda generazione il peso della memoria dei padri Shoah Rizzoli Lizard Michel Kichka La seconda generazione di Michel Kichka racconta la ricostruzione di un rapporto fra un figlio e il padre; ci sono molti altri temi che si affacciano lungo questo percorso – innanzitutto quello della testimonianza della – ma, come ribadisce il sottotitolo, Quello che non ho detto a mio padre, sono parte del contesto e non la prospettiva di scrittura. Seguendo questa indicazione, in questo articolo adotteremo quindi come punto focale dell’analisi il rapporto fra generazioni e fra padre e figlio.

Il confronto con la memoria e il passato, le sue modalità, le sue stesse focalizzazioni cambiano con il tempo e lo spazio, con le culture e i contesti. Queste trasformazioni ci parlano sì dell’oggetto del ricordo, ma ci dicono assai di più (o, se si vuole, offrono assai più interrogativi e percorsi esplorativi) sui soggetti che ricordano. La ragione è immediata: la gestione della memoria e la costruzione del ricordo sono parte fondante della gestione della propria immagini di sé e della costruzione della propria identità.

Michel Kichka: La seconda generazione il peso della memoria dei padri Shoah Rizzoli Lizard Michel Kichka
Così, diventa particolarmente proficua la lettura comparata fra un’opera come La seconda generazione di Michel Kichka e, ad esempio, Noi non andremo a vedere Auschwitz di Jérémie Dres o La proprietà, di Rutu Modan.

La distanza fra questi lavori riflette quella fra il significato che la memoria della Shoah ha per generazioni diverse. Per Kichka è una memoria familiare che da allusiva ed elusiva (le battute del padre Henri, che non diventano mai racconto – qui il pensiero va ovviamente al Maus di Art Spiegelman) diventa addirittura ingombrante e trasforma la vita del padre, che inizia un percorso pubblico, che tuttavia (paradossalmente?) non coinvolge la famiglia.
La discontinuità nella vita della famiglia Kichka è stata marcata dal suicidio del figlio minore, Charli: è dopo questo evento che Henri libera i propri ricordi. E, riflessione nostra, non dell’autore, il rapporto del padre con la memoria delle persecuzioni naziste sembra allora anche (prima di tutto?) un rifugio dal confronto con la morte del figlio, una mossa che evita di affrontare il fallimento come padre per ridefinirsi come custode e divulgatore di un passato che ha acquistato rilevanza pubblica.

Quello di testimone è un ruolo in cui Henri si cala totalmente, ossessivamente, arrivando a irridere e sminuire le altre voci su quell’esperienza, a partire da quella di Primo Levi per arrivare a quella di Spiegelman, a dimostrazione che la sua autostima è ormai totalmente dipendente dalla propria primazia pubblica come testimone. In un certo senso paradossale, le persecuzioni naziste definiscono ancora la vita di Henri, ormai personaggio pubblico.
Il rapporto con Michel rimane farraginoso, al limite dell’anaffettivo, ulteriore esempio del fatto che il percorso della propria salvezza non attraversa/richiede/implica alcuna educazione all’amore: per anni, Henri non troverà l’occasione di andare col figlio in uno di quei campi dove accompagna le scolaresche francesi; quando parla con Michel, il suo tono è quello delle conferenze e anche quando nel finale lo vediamo, ospite a Gerusalemme della famiglia di Michel, lasciarsi andare di fronte ai nipoti a battute sui propri ricordi delle persecuzioni, rivediamo in realtà il padre che faceva battute ai figli piccoli, con in più la constatazione amara che adesso quelle battute avvengono in un dopocena innaffiato da abbondanti libagioni. Nessuna confidenza, nessun tentativo di avvicinamento, nessuna evoluzione, ma solo uno scivolamento dell’uniforme di testimone ufficiale, un’uscita dal ruolo, dovuta all’alcool.

Michel Kichka: La seconda generazione il peso della memoria dei padri Shoah Rizzoli Lizard Michel Kichka
Dai lavori sopra citati, la differenza maggiore che emerge nel rapporto dei personaggi e degli autori (siamo infatti spesso nel campo dell’autobiografia) risiede in questo: che, mentre la generazione dei figli dei sopravvissuti alla Shoah, che non abbiano condiviso le persecuzioni dei padri, sembra subire quella memoria che torna in superficie e si dichiara misura del mondo e dell’identità individuale, i nipoti affermano il proprio diritto a costruire una visione del mondo attuale in maniera autonoma, dove quei ricordi sono un elemento fra gli altri e non necessariamente quello dominante.

Per i figli, quei ricordi marcano una distanza abissale dai genitori, alludono a qualcosa di incomprensibile, incomunicabile. Come già dichiarato in Maus, il punto è che le sofferenze non migliorano gli individui. L’oblio delle persecuzioni era stato un modo per sopravvivere “dopo”, di tornare alla normalità, di allontanare gli incubi. Il percorso di elaborazione del ricordo comportò il confronto con il passato, rivivere quei momenti di profonda umiliazione e annullamento del sé: quale era il posto, in quel cammino doloroso, per dei figli che non avessero vissuto quella stessa esperienza?
I nipoti hanno altre risorse, probabilmente i loro genitori li hanno in un certo senso difesi dal peso della memoria vivente dei nonni e hanno dato loro la possibilità di non lasciarsi schiacciare dai ricordi, di poterli considerare sì un patrimonio da custodire, ma da far fruttare per capire (il mondo, gli uomini) e non semplicemente per recuperare la propria identità, che si è definita in altro modo, per altri canali, più normali. Quel ricordo può quindi essere gestito come un patrimonio da condividere e non come elemento di esclusione/definizione.

Michel Kichka: La seconda generazione il peso della memoria dei padri Shoah Rizzoli Lizard Michel Kichka

Se si vuole, è in qualche modo normalizzato, senza essere banalizzato (si legga al riguardo: Valentina Pisanty, Abusi di memoria, Bruno Mondadori). Detto altrimenti: la terza generazione, quella di Jérémie Dres, riesce ad uscire da quell’ombra della generazione dei sopravvissuti all’interno della quale si era mossa la generazione di Michel Kichka.

Michel Kichka costruisce La seconda generazione tramite una catena di associazioni di immagini e pensieri, che gli consente di mantenere il focus di ogni scena sugli elementi centrali (non ci sono di fatto divagazioni, ogni particolare fa parte del discorso principale) dando
comunque al racconto un ritmo elevato ed evitando l’accumulo ossessivo di angoscia grazie ai numerosi cambi di scena e di tono. Lo sguardo dell’autore si pone di volta in volta a distanza diversa dall’oggetto del racconto e, grazie anche allo stile di impianto umoristico, dall’impostazione delle tavole alla rappresentazione dei personaggi, sono numerosi i momenti affrontati con ironia affettuosa, con immagini che colgono pensieri ed emozioni in una singola vignetta, interrompendo il flusso del racconto e offrendo pause di riflessione.

Alla fine, di Henri non sappiamo molto di più di quanto sapessimo all’inizio, e l’impressione è che la nostra visione di lui sia assai diversa da quella di Michel: le ferite non sono sanate, le incomprensioni restano irrisolte. Ma nella scena finale ci sono i nipoti che ridono, non ossessionati dai ricordi del nonno: è la terza generazione, quella che erediterà il mondo dei sopravvissuti senza essere schiacciata dal peso del loro passato.

Abbiamo parlato di:
La econda generazione
Michel Kichka
Traduzione di Giovanni Zucca
Rizzoli-Lizard, 2014
112 pagine, brossurato, bianco e nero – 16,00 €
ISBN: 8817071978


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