Dal paesaggio di plastica al paesaggio vero, dalla prima alla seconda parte di Tabu, da Paradiso perduto a Paradiso. Si prosegue nel completamento del mosaico dell’opera di Gomes, pellicola della diversità, unita dal filo rosso della saudade. La storia di Ventura è una narrazione che avvolge lo spettatore, come in un sogno o in un ricordo velato dall’onnipresente ironia (si pensi al nome dato al coccodrillo, Dandy, che non può non far ricordare Crocodile Dandy, o alla band di musicisti ai limiti dell’assurdo). Bisogna ora distinguere, solo per facilità d’espressione, ciò che “si vede” da ciò che “non si vede”.
Cosa si vede? Lo spettatore guarda una storia d’amore e di delusioni, sfocata dagli scherzi della mente. Non si tratta di una semplice narrazione, ma di un ricordo lontano che, come tale, è destinato a essere confuso e, per l’appunto, “sfocato”. Qual è lo stratagemma di Gomes oltre a scegliere una grana differente per la sua pellicola? Il silenzio delle voci, accompagnate dai suoni degli ambienti. Sempre nei Cahiers du Cinéma n°684, il regista portoghese spiega (T.d.a):
“Ho pensato a una cosa molto pratica per questa parte africana: quando non si ricorda qualcosa passata da molto tempo, i vocaboli concreti, le parole dette nel passato spariscono. Ci si ricorda della storia, delle immagini, ma non dei vocaboli precisi. Ho cercato di far leva su questa idea per non fare un semplice omaggio […] per riavvicinarmi a tali aspetti, a questo cinema disperso, ho raccontato il ricordo di Ventura in un flash-back che non ha l’aspetto di un flash-back, ma piuttosto di un sogno”.
Lo spettatore, pertanto, vede qualcosa di menomato, privo dell’attualità dell’evento. Non si è in Africa a seguire le vicende di Aurora e Ventura come un terzo in comodo, ma si è al bar nel centro commerciale e si osserva il pensiero in immagini di Ventura, ma che potrebbe corrispondere benissimo alla fantasia di Pilar o di Santa. Un pensiero, dei ricordi che, come tali, non possono essere totalmente veritieri: evolvono nel racconto.
“Ho fatto leva sulla sfocatura della memoria, ciò che essa dimentica. Mi sono detto: se non ci sono dei dialoghi è perché li hanno dimenticati. In fondo non si sa neanche chi racconta, se è Ventura che dice la verità o se affabula, se è la memoria delle due signore che divaga o se ciò che è raccontato è semplicemente una storia che ha come collante un patto fra il film che fabbrica dei falsi ricordi e uno spettatore che desidera ascoltarli”.
Insomma, lo spettatore non vive direttamente il flash-back. La parte africana è distante dall’occhio del pubblico, ma soprattutto dal suo orecchio:
“La parte africana crea una sensazione bizzarra perché lo spettatore è partecipe della storia e, allo stesso tempo, si sente un po’ lontano per l’assenza del dialogo. È nel presente della narrazione, ma sente che tutto ciò che vede non esiste più, come una stella morta che luccica ancora”.
A questo punto, dunque, si può già giungere ad una prima conclusione. Se la parte africana è più distaccata dallo spettatore rispetto a quella portoghese, si tratta di una distanza geriatrica oltre che fisica e mnemonica. Al primo impatto si è portati all’errore. Si è infatti tentati dall’associare il “paradiso” al luogo fisico, alla savana. In realtà questo eden non risiede nella località geografica, ma al paradiso di uno stadio della vita umana: la gioventù. Tabu, allora, è una storia di uomini anziani che amano il “paradiso perduto” della gioventù.
Cosa non si vede? Sembra banale dirlo, ma ciò che si nasconde dietro a questo velo di Maya è il profondo amore che Miguel Gomes nutre per il cinema. La copertura non è riprovevole, sia chiaro, anzi è interessante (meravigliosa la scena d’amore fra Ventura e Aurora, nonché il successivo piano sul sesso della ragazza e sul suo ventre gravido). Ma lo sguardo dei coccodrilli sono gli sguardi del pubblico e del regista. Un’occhiata carica di senso e ricca della consapevolezza di ciò che sta dietro la narrazione. La pellicola è una riflessione sul cinema, ma non sterile, banale o fine a sé stessa. Tabu è una rampa di lancio per qualcosa di creativo, che volta le spalle al passato pur attingendo da esso gli ingredienti principali. Di nuovo Gomes:
“E’ tabù fare un film che ha un rapporto così diretto con il cinema. Ma non cerco di fare un cinema postmoderno che si diverte con dei riferimenti, troverei il tutto alquanto sterile. C’è in Tabu […] non delle citazioni, ma una nebbia di cinema, non dei film ma delle impressioni di film. […] Il cinema è come i personaggi: un uomo vecchio e una donna vecchia che rimpiangono la gioventù. […] Non possiamo, oggigiorno, rifare o copiare il passato […]. Ma possiamo stabilire un dialogo con ciò che è sparito. Ritornare su qualcosa che il cinema ha un po’ perso, forse il suo paradiso, questa sorta d’innocenza, di credenza che lo spettatore aveva agli inizi. […] Il cinema ha la capacità di far rivivere questa credenza, anche se sappiamo che è finta, che non è la vita. Penso che al cinema, oggi, manca questa credenza, questa giovinezza. Vedendo Holy Motors di Leos Carax, ho avuto la sensazione che egli pensa ancora realizzabile questo patto di credenza. Apichatpong Weerasethakul anche, credo. La nostra epoca porta la memoria di tutti questi fantasmi del passato, e ne abbiamo bisogno, in maniera molto emozionale. Bisogna fare del cinema contemporaneo cercando di far arrivare questi fantasmi della gioventù del cinema”.
Possiamo rassicurare il regista, ma ha commesso un errore. Non solo Carax o Weerasethakul tentano di ristabilire la credenza, ma anche Miguel Gomes.
Mattia Giannone