Mentre tutti gozzovigliano ai gazebi del “carnevale delle culture” a Kreuzberg, tra cucine di vario genere, germi e improbabili tuniche cinesi, io, che sono diversamente sociale, fraternizzo con la Berlinische Galerie, lì, a pochi passi dagli ubriaconi e dal museo con la famosa stella di David spezzata. Chi non è in diaspora d’altronde? Io lo sono da sempre con me stessa.
Ci sono diaspore dai confini sempre indefiniti. Forzatamente si deve lasciare una parte di sé, un groviglio di sentimenti e migrare altrove in cerca di sopravvivenza, adattandosi alla fine per forza di cose. In fondo perché il suicidio, purtroppo, non porta quasi mai sensi di colpa negli altri.
Pensavo a questo delirio nichilista osservando l’installazione di Michael Sailstorfer in cui degli alberi sono appesi a foglie in giù e ondeggiano grazie ad un braccio meccanico. Al di là della parabola ecologista (che ha rotto francamente un po’ il cazzo) mi sono immedesimata nell’albero che scarnificato ondeggiava qua e là, in balia di una forza superiore e sempre ripetitiva, tipo la banalità del quotidiano. Se quell’albero è ciò che resta del disboscamento, le persone che ci circondano lo sono di qualcos’altro: una relazione o un impero.
Non avevo mai visto nulla di Mikhailov Boris, il fotografo ucraino ancora vivente e adottato da Berlino. Generalmente quando vado a vedere una mostra fotografica dimentico sempre il nome del fotografo e mi annoio a leggere tutte le didascalie. Poi se c’è qualcuno che fa confusione e disturba, per esempio un neonato che piange, allora l’insofferenza diventa panetti di tofu.
Mikhailov mi è simpatico. Era un ingegnere con il pallino della fotografia e quando il Kgb scoprì una foto di sua moglie nuda smise di far l’ingegnere, caldamente “consigliato” a farlo, e si dedicò a tempo pieno alla fotografia. Caro Kgb, deve aver pensato, suca.
Nella serie di foto dedicate alle manifestazioni, Mikhailov aggiunge il rosso dove dovrebbe essere, rendendo il tutto iperreale e rompendo il giocattolo delle apparenze. A volte basta una luce diversa o lo spostamento dell’obbiettivo per vedere la decadenza nascosta, come nella serie del lago salato, luogo di benessere termale per i cittadini sovietici, ritratto tra relitti e abbandono.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica Mikhailov torna in patria e immortala poveri disgraziati storpiati dalla fame e dalla storia e i nuovi mostri del frettoloso neo capitalismo. Insomma certe terre non hanno avuto mai pace e nemmeno certe persone. Se un impero lascia un relitto è anche vero che prima di una deflagrazione generale si può vivere uno stato di grazia, una sorta di Repubblica di Weimar, a spasso con Klee e Döblin, a vedere il cabaret e ascoltare Marlene che canta “Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe eingestellt” ( “Da capo a piedi sono disposta all’amore”).
Per questo posso comprendere la mamma di “Good bye Lenin” e tutti quelli costretti alle diaspore da terre, sistemi politici, relazioni. In fondo c’era chi pensava per te e non eri mai solo. È il meraviglioso mondo dei matrimoni combinati: in genere non vieni scelto e se scegli tu scegli male. Tanto vale che qualcuno sceglie per te.
Natasha “Eva Kant” Ceci
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