Memoria corta o faccia di bronzo? Marco Milanese, ex braccio destro di Giulio Tremonti riccamente inquisito per corruzione, rivelazione di segreti d’ufficio e associazione per delinquere, è stato scelto come relatore del Documento di economia e finanza in Commissione politiche europee alla Camera. Rapidamente accantonata la mai chiarita questione della casa romana affittata cash a Giulio Tremonti, di cui Milanese è la metà oscura, l’imbarazzante anfitrione di via Campo Marzio 24 torna in auge nonostante la P4, gli appalti Enav da 25 milioni di euro e i misteri dell’ineffabile ex ministro dell’economia.
La designazione di Milanese è stata fatta dall’ex presidente del Coni Mario Pescante, a sua volta plurindagato per reati contro la pubblica amministrazione e tuttavia presidente o vice di un sacco di cose: della Commissione Politiche europee, del CIO e pure dell’effimero Comitato promotore per la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2020. Insomma, domina il fumus della corruzione come Grande Evento, preziosa credenziale per parlare con competenza di pubblica amministrazione e di economia.
È un po’ come nominare Jack the Ripper relatore di un disegno di legge sulla prostituzione stradale, come designare Cosentino presidente di una Commissione di studio sulla lotta alla criminalità organizzata, come nominare Belsito ministro del Tesoro o – peggio – come consultare Niccolò Ghedini sulle nuove norme anticorruzione. In verità Jack the Ripper si starà rivoltando nella tomba per l’inedito accostamento a Ghedini, il quale è stato effettivamente consultato dal ministro Severino per mitigare gli appetiti abrogativi del Pdl.
Lo sdoganamento istituzionale di Milanese a pochi mesi dall’aborto parlamentare della sua richiesta di arresto è stato duramente criticato da Stefano Fassina, responsabile economico del Pd. Il problema viene così liquidato da Iole Santelli: «a noi appartiene un altro stile, e quindi non speculiamo con attacchi personali».
Che sia stile è da discutere: è una prassi diffusa, consolidata, pervicace, che induce a identificare la responsabilità politica con la sola sentenza di condanna, senza zone grigie di inopportunità. Più che di stile, è il caso di parlare di imprinting: lo stesso che trasforma gli inquisiti del Pdl in vittime di persecuzioni giudiziarie, che porta i Formigoni (im)penitenti a dire che il cibo dei faccendieri non è reato, che spinge il presidente del Popolo delle Libertà a parlare di innocue gare di burlesque come elegante passatempo serale tra camerieri in livrea e orchestrine cantanti. È lo stesso meccanismo che ha generato le leggi ad personam, spingendo ancora per una riforma della corruzione che spieghi i suoi effetti sul processo Ruby. E nulla è cambiato rispetto all’era dell’Utilizzatore finale.
Certo, si potrebbe dire che in realtà non è facile scegliere relatori incensurati nell’attuale parlamento. I deputati e i senatori con traversie giudiziarie sono ottantotto: per singolare par condicio, le pendenze attraversano tutti i partiti dell’arco costituzionale, spaziando dal Pdl – che detiene il primato – alla Lega, fino a toccare IdV e Responsabili (termine più che mai pertinente). I rappresentanti del popolo vantano, a seconda dei casi, condanne definitive, processi in corso o provvidenziali prescrizioni.
Protetti dai partiti che li hanno accuratamente selezionati tra torme di incensurati, i parlamentari del porcellum esprimono una densità criminale superiore a quella di Scampia. Non potendo decadere o essere costretti alle dimissioni, devono lavorare per noi a temi che li riguardano troppo da vicino. Non si pongono alcun problema di understatement, di discrezione, di pudore. Non pensano che responsabilità, che deriva da risposta, sia un concetto assai più ampio di quello di colpevolezza. Non pensano che esista etica nella politica, pretendendo di decidere il nostro destino con la connivenza dei tecnici. Spetta a noi dare un segno definitivo d’insofferenza e di rinnovamento: i relatori siano deputati, non imputati.