Se già il Festivaletteratura con i suoi mille incontri, gli scrittori stranieri, le novità e i seminari può rappresentare un’esperienza quasi mistica per il letterato, per me che ci ho passato meno di ventiquattro ore, questa fugace visita alla sua quindicesima edizione rassomiglia a un sogno di fine estate, iniziato in tarda serata, con un rapido sguardo notturno alla città cui si accede con un ponte sospeso sul lago, oltre il quale c’è un castello con cupole fatate e un’atmosfera assolutamente fiabesca (capisco perfettamente come Miyazaki abbia trovato l’ispirazione per i suoi bellissimi film).
Il Festivaletteratura quest’anno ha spostato varie sedi causa terremoto – che a occhi ignari quali i miei non ha comunque cambiato la bellezza della città, nonostante qualche più avveduto visitatore mi confermasse che qualche dettaglio si è smosso – ed è tutto concentrato nel centro cittadino. Dunque tendoni, postazioni di programmi radio, bar, librerie e Biblioteche circolanti, sono collocati nell’intricato labirinto di piazze e strade acciottolate di Mantova. Domenica è l’ultimo giorno della manifestazione e il mio unico giorno al Festival, i visitatori sono tantissimi e il sole ha deciso di prenderci sul serio e farci abbronzare tutti, arrivando a riscaldarci fino ai trenta gradi.
Il programma straripa di eventi e bisogna fare una scelta subito. Ma ancor prima bisogna ritirare il proprio tesserino in sala stampa, altrimenti niente accesso gratuito – e colgo la palla al balzo per muovere una piccola critica alla manifestazione: incredibile, ma non
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La pausa pranzo è monopolizzata da un unico evento da programma, l’incontro sull’Ispettore Stucky con Fulvio Ervas, ma io decido di regalarmi momenti di trascurabile felicità spulciando le bancarelle dei libri usati e antichità, dove si possono fare begli affari e si incontrano vecchi amici.
Alle 15 volo al Chiostro del Museo Diocesano perché attirata da un argomento quanto mai stuzzicante: il piacere di riscrivere i libri, che è il titolo dell’evento, ospiti Piero Dorfles (da sempre seguito in “Per un pugno di libri”, e mi stupisco nel vedere quant’è alto) e Pierre Bayard, i cui libri sono sempre delle magnifiche provocazioni. L’intera chiacchierata è , in realtà, una continua provocazione, poiché tutto muove dalla rivoluzionaria critica interventista (o anche costruttivista o del miglioramento) di Bayard, che propone di rileggere e analizzare i classici come se fossero scritti da altri autori – ad esempio Via col vento scritto da Tolstoj – o di accorciare libri troppo lunghi come La recherche di Proust, e di lasciare che i critici critichino, smontino e rimontino teorie e supposizioni ma occupandosi dei libri ancora non scritti. Se fantascienza e assurdità sembrano essere i connotati specifici delle idee di Bayard vi sbagliate: come ben gli riconosce Dorfles, Bayard mostra la fondatezza delle sue paradossali tesi ponendo in realtà il lettore al centro di ogni libro, con il suo bagaglio di conoscenze e di cultura personale e sottolineando come per uno scrittore non sia necessario aver visitato un luogo per poterne scrivere, o meglio, narrare e inventare – e cita l’esempio di Chateaubriand che mandava in giro la moglie mentre lui restava in camera, giustificando la scelta come fosse una equa suddivisione dei doveri domestici e coniugali. Senza contare che ridurre alcuni “mattoni” letterari potrebbe finalmente far sì che essi risultino accessibili e quindi leggibili ai più, eliminando il fastidio per tutti di “aver fatto finta di averli letti”, dice scherzosamente Bayard; così come, se ci mettiamo a fare le pulci ad alcuni gialli letterari, anche di quelli classici di Conan Doyle o analizziamo il dramma di Amleto, possiamo notare delle incoerenze interne che svelerebbero che l’assassino imputato nella storia non possa aver materialmente realizzato il delitto, perciò Bayard propone di riscriverli e migliorarli.
Naturalmente, questa sua teoria può essere applicata a tutte le arti, senza paura di travolgere capolavori come L’urlo di Munch o i film di Hitchcock.
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Concludo in bellezza con Guy Delisle, di cui è appena uscito Cronache di Gerusalemme, che non vedo l’ora di leggere, probabilmente tutto d’un fiato in un pomeriggio – cosa che da un lato lusinga il suo autore, perché significa che il libro sa rapirti, ma d’altro lato lo deprime, perché lui ci impiega anni a scriverlo, e la sua fatica viene dilapidata invece in così breve tempo, come dirà lo stesso Delisle nel corso della serata. Quest’ultimo evento che seguo inizia benissimo: arrivo un po’ prima e casualmente mi siedo proprio dietro
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Lo stesso Delisle non sa bene come definirsi, e l’unico modo per spiegarci il suo lavoro è mostrarlo – con un breve video velocizzato di lui che disegna e scrive al suo tavolo da lavoro – e raccontarlo: mentre viaggia, o meglio, mentre vive altrove nel mondo, cerca di condurre la sua vita normale di padre e marito, prendendo appunti e schizzi dei dettagli che lo colpiscono; al ritorno a Parigi, riprende in mano quegli appunti, seleziona i “ricordi” e decide come affrontare certi temi, con quale vignetta esprimerli, offrendo semplicemente il suo punto di vista; come lui stesso dichiara, con le sue “cartoline dal mondo”, come le battezza Cirri, il lettore fa sempre una seconda parte del lavoro perché non è mai spiegata nel dettaglio la situazione politica del paese, che però si desume dagli eventi raccontati, né chi abbia ragione e chi no, così il lettore è libero di dare un proprio giudizio e di formarsi un’opinione sulla vita in Palestina, o in Corea del Nord o in Birmania o in Cina. Ora che – pare – abbia smesso di viaggiare in lungo e in largo nel mondo, Delisle si dedicherà a progetti narrativi e non autobiografici, di cui accenna qualcosa (la storia di un medico senza frontiere che viene sequestrato, riesce a scappare in piena notte e deve però tornare all’ambasciata) e che sono già in attesa di vedere.
Il tramonto cade sulla città fatata, questa sera si chiudono i battenti dei castelli di carta e tutta la bella e tanta gente che torna a casa e lascia la città mi sembra stanca, ma più leggera. È bellissimo vedere in quanti eravamo, sentirsi parte di una grande società di lettori, pensare che tutti noi proviamo lo stesso identico piacere, eppure così diverso, nello sprofondare in un bel libro, e mi sembra quasi di credere che non ci saranno crisi a sconfiggere queste realtà… Sospirando mi lascio alle spalle il contorno rosa di Mantova, con la sensazione di aver appena appoggiato le labbra a questo calice ricco di ambrosia e la promessa di tornarci più a lungo l’anno prossimo.
Azzurra Scattarella