di Giancarlo Zaffaroni
C’è stata molta musica all’inaugurazione dell’Expo 2015 di Milano: da quella pop-classica di Bocelli & friends con Lang Lang che suona il pianoforte di Puccini, al coro di bambini che canta con la mano sul cuore l’inno nazionale con finale manipolato (siam pronti alla vita), alla banda dei carabinieri con divise coreografiche per le foto dei delegati, a uso televisivo per attrarre target sensibili alla visione spaghetti-pizza-mandolino nel luna-park dell’esposizione che sfrutta i lavoratori e se ne frega della fame del mondo.
La Turandot della Scala riequilibra sul versante culturale con un’interpretazione analitica amorosa della complessa partitura, un’eccellente prestazione di coro e orchestra galvanizzati da Riccardo Chailly al debutto come direttore musicale. Turandot è l’ultima opera del melodramma italiano, incompiuta perché Puccini non riuscì a trovare forma musicale per al duetto finale forse a causa della cortissima unità di tempo fra un tramonto e un’alba. Franco Alfano, angariato da Toscanini, compose un happy end pomposo e fracassone incongruo con lo stile pucciniano tagliente e quasi espressionista, che per beffa non eseguito alla prima (Aprile 1926), che in seguito, con alcuni tagli, entrò nella prasi esecutiva. Puccini usa mezzi musicali modernissimi: il primo atto ha una struttura di sinfonia che include i numeri del libretto senza soluzione di continuità come il secondo atto del Wozzeck di Berg (1922), le cineserie non sono esotismo manieristico ma superamento del linguaggio tonale con effetto straniante. L’unione di voci e sinfonia, l’armonia politonale e gli strumenti fuori dai registri naturali, l’esuberanza stentorea del tenore fanno pensare a Mahler. Chailly sottolinea le vicinanze dei due autori e legge la partitura pucciniana attento a ogni particolare in modo autentico, scrostando le interpretazioni pigre della tradizione.Lo spettacolo di Nikolaus Lehnhoff ha il pregio dell’essenzialità e qualche difetto. La scenografia e alcuni costumi ricordano certa fantascienza d’antan, Metropolis o Guerre stellari e il cabaret anni trenta nei costumi delle maschere fra cubismo e suprematismo, trucco da clown e mossette chapliniane. Il coro-popolo-massa è nascosto nei soliti cappottoni delle regie tedesche, sorge dal sottosuolo e rimane talvolta semi-interrato come in Beckett. Particolarmente fastidiosa la massificazione del coro nel primo atto, dove si dovrebbero vedere i gruppi che cantano parti differenti: folla, guardie, servi del boia, ragazzi, ancelle di Turandot e persino le ombre dei principi morti. Turandot appare nel secondo atto come donna-insetto o uccello rapace, dark lady superba sempre meno sicura a ogni enigma svelato, nessuna traccia della fanciulla terrorizzata dagli uomini. Nina Stemme le presta la sua voce un po’ dura, priva di legato e sfumature, senza le opportune risonanze infantili. Peggio il Calaf di Aleksandrs Antonenko, con voce traballante in modo fastidioso, tremende le invocazioni del nome della principessa alla fine del primo atto. Il Nessun dorma, diventato canzonetta, avrà svegliato il pubblico poco avvezzo con qualcosa di famigliare, entusiasmandolo con l’acuto si naturale alla fine (malfermo), senza applauso. Sostiene il sovrintendente Pereira che questa è la migliore Turandot possibile, speriamo nel secondo cast. Precisa e toccante la Liù di Maria Agresta, ruolo non impervio ma essenziale nell’economia drammaturgica dell’opera, particolarmente nella visione di Lehnhoff-Berio.
Nel 2001 Lehnhoff firmò la prima regia col nuovo finale musicale partendo dall’idea interessante che il cadavere di Liù rimanesse in scena come interrogativo e monito ai protagonisti. Berio si convinse poco per volta di questa modifica focalizzando il finale sul possibile amore della coppia. Calaf, spaccone incosciente, non pensa che l’enigma del nome rilanciato a Turandot sia un rischio mortale per il padre e Liù. Nel drammatico confronto fra le due donne Turandot ordina che Liù sia torturata, mentre la schiava trova la forza di consegnarle il suo amore per Calaf, uccidendosi infine col suo pugnale. Finita la splendida trenodia funebre, che commuove persino le maschere ciniche, inizia il finale di Berio, che fa parlare soprattutto la musica poiché vengono cantati solo i passi testuali presenti negli appunti pucciniani.
Ritornano temi dell’opera e si esplicitano riferimenti musicali con citazioni di Wagner (Tristano), Mahler (settima sinfonia) e Schönberg (Gurrelieder). La nuova coppia riflette, forse si pente, considera l’idea di un futuro possibile. Calaf rivela il suo nome e Turandot rinuncia al potere di morte che ha su di lui. Il finale non può che essere aperto, la nuova coppia si avvia di spalle, sola, verso un mattino di luce dorata, la scenografia si rivela piatta e lascia passare la luce, folla e corte sono voci lontane. L’ultimo frammento che risuona profondo è l’amerai anche tu di Liù, prima dell’ultimo accordo luminosissimo, piano, come voleva Puccini.
Giancarlo Zaffaroni
Cover Amedit n° 23 – Giugno 2015 “Il ragazzo dagli occhi di cielo” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 23 – Giugno 2015.
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