La stagione calcistica 2014-15 è ormai alle porte, e sono questi gli ultimi giorni in cui ci è concesso, ad appena due settimane dalla fine del Mondiale, di fare i conti con l’annata che si è recentemente conclusa. Facendo il borsino dei guadagni, e -soprattutto- delle perdite del nostro calcio, è impossibile non accorgersi di come uno dei più grandi protagonisti di questi ultimi anni ci abbia lasciato: Diego Alberto Milito. Alessio Dell’Anna ci spiega perché il suo addio sarà uno di quelli che ci farà più male.
“Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica” – Pier Paolo Pasolini.
Se il calcio è diventato ciò che è diventato, è perché il gol è divenuto una cosa normale. L’esultanza indifferente di Marcelo che chiude la finale di Champions League 2014 contro l’Atletico Madrid non è stato esattamente lo spot del calcio che avrei voluto vedere, così come non riesco, nonostante ci provi con tutte le mie forze, ad abituarmi ad un calcio dove i giocatori cambiano squadra a questa velocità fastidiosa e schizofrenica. Non si tratta nè di ascese nè di cadute, come potrebbero esserle quelle nel ciclo naturale della vita di un atleta, ma semplicemente di persone che trottolano come in un flipper impazzito tra squadre praticamente dello stesso livello e blasone. Si sono perse le radici, le ali lavorano ancora bene, e purtroppo non c’è modo di fermare chi a furia di volare troppo in alto finisce per sciogliersi nel sole.
Da che mondo e mondo il calcio per me ha sempre rappresentato una liberazione. Una liberazione che col gol ritrovava la sua forma più pura, sconfinando in un mondo mistico e trascendentale: non una nirvanica, schopenhaueriana, liberazione dal desiderio, ma un’estasi “nietzscheiana” di colori e gioia proveniente dalle viscere.
Diego Milito ogni volta che segnava godeva, e io con lui. Per Diego Milito, anche nei momenti più bui della sua Inter, quando vincere o perdere non contava più assolutamente nulla, segnare un gol valva sempre tantissimo. Non l’ho mai visto esultare in maniera “moderata”, ed era questo che amavo alla follia. La bocca spalancata, i capelli al vento, le braccia tese a mostrare le vene pulsanti scorrere nel proprio corpo. Era uno spettacolo riconciliante col pallone, e con la vita.
C’era qualcosa in lui che richiamava al calcio antico, soprattutto per il tipo di giocatore che era. L’essere un attaccante duttile, specializzato in niente ma bravo in tutto: lui non era “quello delle palte alte”, non era “quello delle punizioni”, non era quello “del dribbling fulminante”, era semplicemente quello che la buttava dentro, in qualsiasi modo si potesse fare. Un tipo di mesteriere che oggi non esiste più, nel calcio, così come nelle altre professioni. Tocca essere “specialisti”, tocca essere quello “del…”, tocca essere quello da cui sapere sempre cosa aspettarsi. Cosa che stona un po’ in uno sport dove, nonostante la super-professionalità degli addetti ai lavori, la super-pianificazione che si fa ogni giorno, il Vorsprung durch Technik tedesco, a fare la differenza è- e sarà sempre- la fantasia.
Il motivo per cui ho scritto questo pezzo è semplicemente perché credo che tra l’addio agli eroi del Triplete, fra cui spiccava indubbiamente quello di Javier Zanetti,non gli sia stato tributato il giusto palcoscenico. Se ne è andato da comparsa, timidamente, un po’ come se n’e era venuto, sotto gli occhi di chi, scetticamente, pensava non avrebbe mai potutto rimpiazzare un colosso come Zlatan Ibrahimovich. E’ un po’ ingiusto per me, che sognavo di vederlo invecchiare con la maglia della mia squadra. Magra consolazione sapere che tanto vedere davvero invecchiare qualcuno in una squadra, con una squadra, non sarà mai più possibile. Sarà sempre come la prima volta, da 20 a 35 anni, come le esperienze passate non contassero più nulla, sempre per la squadra in cui da piccolo si sognava di giocare, o di cui si ammiravano le gesta.
E’ per questo motivo che nel calcio tiferò sempre per i vecchietti, per i ritorni romantici, per le storie d’amore che fanno giri infiniti e poi ritornano. Come quella di Henry con l’Arsenal, di Inzaghi nell’ultima sua partita col Milan, o come quella di Drogba adesso col Chelsea.
Saremo costretti a nasconderci noi romantici? Troveremo un altro sport meno moderno a cui appassionarci, o tornerà finalmente il campione che al posto dell’eremo ritiro sceglierà di decadere lentamente con addosso la stessa maglia, regalandoci la speranza che, d’improvviso, in una partita qualunque, possa rialzarsi dalla panchina e regalarci ancora la gioia del gol dell’uomo non-vinto?
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