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Milo De Angelis: Epos, favola e tragedia

Da Narcyso

Milo De Angelis, LA CORSA DEI MANTELLI, Marcosy y Marcosy 2011

Milo De Angelis: Epos, favola e tragedia
Ripubblicato molti anni dopo la sua prima apparizione, questo testo singolare di Milo De Angelis contribuisce a chiarire alcune questioni in ombra  della sua opera. Per esempio il rapporto tra procedimento compositivo logico e stringente del verso (poetica più di una volta ribadita e rivendicata dallo stesso autore), e andamento prolisso, di diverso respiro, della prosa (risultato in verità corteggiato da De Angelis e mai veramente perseguito fino in fondo).

Tracce di questa nostalgia della prosa si possono ritrovare nella sezione “Capitoli del romanzo”, in Biografia sommaria, dove è presente il racconto  – mai, certo, nella forma del memento  autobiografico, (ogni cartina è muta, senza nomi) ma in quella della mitizzazione del fhash memoriale staccato da una geografia fin troppo riconoscibile.

Si capisce la grande influenza, almeno riferibile ai tracciati di una poetica, che l’opera di un autore come Pavese abbia esercitato in De Angelis: assoluta negazione di qualsiasi forma di redenzione sociale -  o, quando questa si realizzi, incapace di agire propulsivamente sulla scrittura, su quella visione altra del mondo che la poesia attesta; racconto come favola, epos, in grado di procedere per scarti e grumi germinativi, piuttosto che per andamento diacronico. E, non per ultimo, tragicità declinata nella sua musa più prossima: la malinconia, e cioè quello stato dello sguardo assai vicino all’ignoranza di fronte all’ineluttabilità del precipitare, dell’accadere.

Mentre la malinconia, secondo una tradizione romantica, è giunta fino a noi attraverso la volgarizzazione del melos, in De Angelis essa si ferma prima dell’accensione dei colori e delle diversità della vita, declinandosi in un titanismo bloccato, incapace di avventurarsi in  ipotesi di cambiamento. E’ lo stesso titanismo che vediamo rannicchiato e schiacciato nei frontoni dei grandi templi, in quelle rappresentazioni di gigantomachie in cui, mentre al centro della scena i corpi si affrontano, ai lati, nelle nicchie, i corpi confluiscono in una specie di negazione del movimento eroico, della sua necessità.

E’ una poetica che non riconosce nemmeno il sacrificio dovuto a Dioniso: la poesia è atto che non contempla alcuna similitudine, alcuna simbolizzazione -  tutti elementi del sacrificio -  perchè l’accaduto della Storia già è, già ha avuto il suo obolo.

La storia di questa Daina/Diana rappresenta,  nell’opera di De Angelis,  la possibilità di raccontare qualcosa attraverso una forma alternativa, e cioè la favola;  non il poema, perchè questo, più affine al romanzo, è riconosciuto impraticabile se non a frammenti. L’epos è, invece, il gesto simbolo, singolo, bloccato nel suo accadere: è una successione di gesti che si disegnano uno sopra l’altro, come i grandi dipinti delle caverne preistoriche. De Angelis narra qualcosa che non avviene perchè è già avvenuta e quindi avviene in continuazione. E’ questa la funzione della sincope: non riassumere, non sottrarre, ma ripetere.

La prosa nel tempo è cronaca. La prosa nell’epos, è favola. Questa favola rappresenta dunque, in De Angelis, l’impossibilità di narrare la storia del mondo.

In genere, nelle sue poesie, il narrare è legato a fatti brevi:  – il taxi a ferro e a fuoco – . E’ indissolubilmente legato a momenti in cui il fatto si è già metaforizzato, trapassato nella funzione del tragico. Il tentativo di narrare, in questa corsa dei mantelli, non è molto distante dal processo germinativo e di giustapposizione delle opere maggiori. Semplicemente qui, la favola è il contraltare della tragedia in quanto è imparentata a un epos autobiografico mentre la tragedia è espressione di sommovimenti culturali, di un intero popolo  – non è un caso che De Anglelis, a proposito di Tema dell’addio, la sua opera più biografica, abbia sentito la necessità di liberarla dai cimeli dell’autobiografismo dichiarando  che trattasi del suo risultato meno privato, più corale.

Nella sua opera, la tragedia ha già avuto la possibilità di trasformarsi in favola, per esempio in certi passaggi cantilenanti e più “leggeri” che rappresentano uno dei tratti meno indagati della sua poetica: “Canzoncine”, per esempio, in Quell’andarsene nel buio dei cortili; “Le terre gialle”, in Distante un padre; una certa tendenza alla rima lieve in molti passaggi di Biografia sommaria…

  La corsa dei mantelli sembra dunque rappresentare, nella sua forma di unicum, la possibilità di realizzare il canto all’interno di un amalgama dove il mondo appare come favola feroce, suggestione poi ripresa in alcune poesie apparse nell’antologia per bambini, Pin Pidìn.

Questa ferocia rappresentata dai gesti inconsulti e sadici di Daina bambina e Daina adolescente contestataria, ha senso se si considerano gli ingranaggi di un racconto tutto interno che, svincolato dalla logica delle cause e degli effetti, è invece costruito su opposizioni e affiancamenti di piani narrativi minimi, sulla germinazione stravagante dei sogni -  piani temporali e geografie quasi mai coincidono – . Racconto sognato, forse, in cui è appunto il sogno a farsi tramite del contesto geografico ed esistenziale, liberato da ogni riferimento all’accadere per consequenzialità.

Il motivo di questa estrema libertà compositiva è, rappresentato, a mio avviso, dal la rinuncia a una coscienza/sapienza del mondo degli uomini. Nella sua opera in versi De Angelis, in effetti, ripudia la maschera, ogni benchè minima forma di ironia: tutto è terribilmente vero, tutto irrimediabilmente svanisce. In questo racconto quasi assistiamo a un inedito contributo al grottesco proprio delle favole più feroci. Il grottesco smonta il progetto del corpo e lo ricostruisce per forme sghembe proclamando il potere del nulla che incombe sulla fragilità delle forme.

Nell’opera di De Angelis, ma anche per sua dichiarazione, esiste infatti un vero terrore dell’imperfezione, della parola fuori posto che potrebbe far precipitare miseramente il senso e la forza dell’intero organismo testuale. La forma della poesia, allora, no è molto diversa da quella delle forme mentali e naturali, fragili e robustissime nello stesso tempo, condannate all’improvviso morire e sparire a causa dell’oscuro che abita l’altro essere della forma, l’altro di noi che tace.

Sebastiano Aglieco 


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