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“Mind the gap”: l’Italia delle disuguaglianze inaccettabili

Creato il 08 novembre 2012 da Sviluppofelice @sviluppofelice

[Italian Version] by Valeria Cirillo

“Mind the gap”: l’Italia delle disuguaglianze inaccettabili
L’argomento “disuguaglianze” sembra fuori moda fra gli economisti. In genere si può parlare di disuguaglianze di genere o razziali, ma non di disuguaglianze economiche. Sembra ormai consolidata l’idea di una “disuguaglianza economica strumentale”, per fini nobili, come la crescita. Ma c’è davvero un nesso, empiricamente rilevato, fra crescita e disuguaglianza?

Simon Kuznets definì la relazione fra PIL pro-capite (indicatore di crescita) e indice di concentrazione di Gini (indicatore di disuguaglianza economica) con la “U” rovesciata:l’aumento di disuguaglianza in uno Stato va di pari passo con l’incremento del PIL pro-capite, sino ad un determinato livello di questo. Dopo tale soglia, la relazione si inverte e ad alti tassi di crescita corrisponderà un indice di Gini assai modesto.[1]

La concentrazione dei redditi nelle mani di pochi è stata considerata positiva nella letteratura mainstream perché foriera di maggior risparmio e, dunque, di investimenti. A cascata, attraverso l’“effetto di sgocciolamento” (trickle-down effect), la crescita avvantaggerà tutti nel lungo periodo. Ma è davvero così?

L’evidenza empirica successiva a Kuznets mostra che “i dati poco supportano l’ipotesi di una relazione ad U rovesciata tra livelli del reddito e disuguaglianza, almeno nei test paese-per-paese, nel 90% dei casi”.[2]

Perciò Maurizio Franzini afferma che è bene parlare di disuguaglianze non in termini strumentali ma di per se stesse.[3] Ed è bene anche esprimere un giudizio di valore, andando oltre il distinguo disuguaglianze alte/basse, come spesso fa la letteratura empirica.

Quando,allora, le disuguaglianze possono essere definite “accettabili”?Per rispondere occorre soffermarsi sui meccanismi di generazione delle disuguaglianze. Tralasciamo la distribuzione funzionale dei redditi, che si riferisce al come essi siano generati (profitti, salari, rendite), e soffermiamoci sulla distribuzione personale degli stessi (quanto si guadagna o si possiede). Un meccanismo che crea disuguaglianza è lo skill premium, che deriva dalle diverse competenze e conoscenze degli individui.[4] Si tratta del premio al capitale umano. Questo tipo di disuguaglianza, afferma Franzini, sarebbe accettabile in un sistema in grado di garantire l’eguaglianza delle opportunità,in un mercato perfetto in grado di determinare correttamente il valore sociale del capitale umano, e dove tutti senza esclusione potessero acquisire le medesime competenze, in virtù dell’ininfluenza delle condizioni di origine.

E’ questo il caso dell’Italia? In realtà il Bel Paese è fra i leader della disuguaglianza nel gruppo Ocse, con un sesto posto ed un coefficiente di Gini, calcolato sui redditi disponibili, pari al 35%. Guardando al rapporto interdecilico,[5] la situazione migliora ma non cambia: l’Italia è al 20° posto su trenta paesi Ocse.[6] Inoltre, la disuguaglianza italiana presenta forti differenze territoriali, con un Sud che contribuisce all’alta disuguaglianza sia in termini di divario fra il suo reddito pro capite e quello del Centro-Nord (between inequality), sia per l’elevata disuguaglianza all’interno della società meridionale (within inequality).

Come abbiamo detto, non è solo questione di alta o bassa disuguaglianza, ma soprattutto di accettabilità o meno della stessa. Un aspetto importante è la trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze, che è connessa alla questione della mobilità sociale e dell’eguaglianza delle condizioni di partenza. Ebbene, in Italia è molto forte la tendenza a trasferire le disuguaglianze dai genitori ai figli: l’indice di elasticità intergenerazionale (coefficiente β) indica quanta parte del divario di reddito fra i genitori persiste in media tra i figli. Questa quota in Italia è molto alta: il 51% (Franzini, p. 64). Insomma, l’American Dream sembra funzionare solo per metà degli italiani, per l’altra metà “chi è tuo padre e cosa fa?” è ancora determinante.

In definitiva, senza una redistribuzione dei redditi, eguagliare le condizioni di partenza sembra difficile, anche soltanto rispetto al capitale umano. Ed è proprio quest’alta trasmissione della disuguaglianza da una generazione all’altra che rende la disuguaglianza italiana non solo alta, ma inaccettabile.


[1] Kuznets, “Economic Growth and Income Inequality”, American Economic Rev., Vol. 45, Mar. 1955, pp. 1-28. Il coefficiente di Gini va da 0 (equidistribuzione) a 1 (massima concentrazione: quando la ricchezza è nelle mani di uno solo).

[2] Deininger K., Squire L. (1996), “A New Data Set Measuring Income Inequality”, World Bank Economic Rev., pp. 565-591, in Ardeni P.G., “Distribuzione del reddito e disuguaglianza”, http://search.conduit.com/Results.aspx?q=distribuzione+del+reddito+e+disuguaglianza&Suggest=&stype=Homepage&SelfSearch=1&SearchType=SearchWeb&SearchSource=10&ctid=CT2851640&octid=CT2851640

[3]Franzini, Ricchi e Poveri. L’Italia e le disuguaglianze in(accettabili), Univ. Bocconi, 2010.

[4] Ivi, p. 117.

[5] Il rapporto interdecilico (P90/10) è il rapporto fra il reddito medio del 10% più ricco della popolazione (P90) ed il reddito medio del 10% più povero (P10). È interessante poiché esprime di quante volte il reddito di un individuo “ricco” eccede quello di uno “povero”.

[6]Al primo posto c’è il Messico: Ocse, Growing Unequal, Parigi, 2008, in Franzini (2010), p. 5.

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