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Miracoli e amarezze

Creato il 24 agosto 2013 da Annalife @Annalisa
Mah...

Mah…

Sono in ambasce. Proprio: questo libro mi ha lasciato una certa oppressione che fatico a capire. Scritto male? Ma, no, non direi: so che mi sono segnata qualcosa (poco) che non mi tornava dal punto di visto sintattico o di punteggiatura, ma davvero, niente di che.
Allora è l’impianto? Questi salti improvvisi da ora a prima, dall’oggi al passato, al ricordo, al presente, dalla realtà al sogno (ogni tanto salta fuori qualche serpente, visioni di strisciate e sibili e spire che, fossi nella protagonista, mi preoccuperei, anche se poi –ma forse ho capito male– quando pianta il moroso storico le pare di sentirsi meglio e senza serpenti, povero moroso)? È questo?
Ma anche no, visto che dopo un po’ ti abitui, come con quella vecchia zia che sta parlando della marmellata di more e ti chiede se è buona e se zio Gerri si è fatto la barba e zio Gerri è morto sei anni prima, ma ti stupisci solo la prima volta, poi ci fai il callo. Lo stesso qui: con tutto il rispetto per le tematiche trattate (la disabilità e la scuola), quando senti parlare di Tommaso e hai ormai capito che è il passato, cerchi solo di riprendere il filo del discorso di quell’altro, Andrea, e di lasciare in sottofondo l’altro ancora, il ragazzo che sta al piano di sopra e di cui si parla con sottintesi, accenni, silenzi.
No, l’impianto è a volte confuso (anche se è chiaro che è stato voluto così) ma si sopporta. E sparse qui e là si possono trovare anche metafore come finestre aperte sulla scuola (“E’ come un pesce nel mare questo ragazzo. Lo sono tutti. Noi insegnanti ci navighiamo sopra, ogni tanto ne peschiamo qualcuno. Ma non sappiamo nulla di quello che succede sotto, di come questi pesci vivono in branco”). Ecco, che bella metafora, io mi ci riconosco, ma capita che altri no.
E allora forse è questo, che mi opprime: leggere un libro sulla scuola pieno di tristezza (da una parte) e di sentore di miracolo (dall’altra), un libro scritto come se la scuola fosse così dappertutto, e non lo è: la scuola è una realtà troppo complessa da riassumere in un romanzo, ma allora forse sarebbe stato meglio farne una testimonianza del tutto personale, e questo riesce solo in parte. È personale il percorso di vita e lavoro della protagonista, ed è diffuso, ma qui e là viene presentato come unico simbolo della situazione generale. Così che, mentre si sa che è vero che molti insegnanti del sud devono ‘salire al nord’ per trovare un posto meno precario, tutti si immagineranno anche che in tutti i consigli di classe si decida in base alle minacce dei colleghi; che ci siano dappertutto professori così deficienti da esasperare apposta una situazione con un alunno difficile; che, finita la scuola, un insegnante se ne vada a spasso di qui e di là senza materiali da preparare (se non qualche libro illustrato da sfogliare e da portare in classe il giorno dopo); che tra insegnanti si parli dei casi dei singoli alunni davanti agli altri studenti…
Il fatto è che, così, si perdono per strada anche le indicazioni giuste di una situazione terribile, perché chi non è dentro la scuola non riesce a distinguere e se prende, prende tutto, il buono e il cattivo. E a farne le spese è ancora una volta la scuola.

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