Il responsabile del personale di Metal Skunk dopo aver controfirmato la lettera di dimissioni di Nunzio Lamonaca
Probabilmente vi starete domandando che fine abbia fatto Nunzio Lamonaca. Se non ve lo state domandando, sappiate che siete dei bastardi senza cuore. Nunzio era il migliore di tutti noi e no, non sto utilizzando questa frase fatta perché sia morto, anche se vivemmo la sua decisione di lasciarci per perseguire nuove avventure creative come un autentico lutto che non riusciremo mai a elaborare davvero. Oggi abbiamo finalmente scoperto la verità ma le motivazioni che addusse all’epoca furono evasive e confuse, come quelle di un gran pezzo di fica che si riveste di fretta alle sei di una domenica mattina per scaraventarsi fuori da camera tua il prima possibile e dimenticarsi per sempre della tua esistenza. Ecco, non dovrei scrivere robe come gran pezzo di fica. Non dovrei in generale perché Laura Boldrini non vuole e nello specifico perché mancherei di rispetto a Nunzio, che non avrebbe mai utilizzato un’espressione così triviale e maschilista. Perché, appunto, era il Migliore, come Togliatti. Era lo yin necessario a controbilanciare lo yang di noialtri sudici bestemmiatori ubriaconi che vivono nel peccato. Senza il suo superiore esempio morale, tutto ha degenerato. Trainspotting ha iniziato a farsi di mefedrone e sono ormai due settimane che rimane barricato in camera ascoltando il concept su zio Paperone del tizio dei Nightwish. Ogni tanto appoggio l’orecchio alla porta e lo sento che piange. Charles sta deperendo a vista d’occhio ed è sceso sotto il quintale per la prima volta dalla terza elementare. Qualcuno di noi ha addirittura votato Pd alle Europee. Caos. Entropia. Kali-Yuga.
Mentre scrivo sto ascoltando per la quattordicesima volta consecutiva How soon is now? e le lacrime si mischiano al whisky del Tuodì che colora di giallo piscio il fondo del bicchiere. Lacrime di nostalgia e serena rassegnazione, non più di disperazione, ora che, gioendo dei fulgidi traguardi da lui varcati nel mondo dello spettacolo, posso pensare a tutto quello che Nunzio ci ha lasciato. Come il teorema dei Misery Index. Trainspotting aveva ideato il teorema degli Ulver, Nunzio quello dei Misery Index. Io sono anni che cerco di elaborare il teorema dei Purulent Spermcanal ma mi blocco sempre quando provo a declinarlo secondo le categorie del materialismo storico.
In base al teorema dei Misery Index, “non importa quanti dischi farai: se suoni qualcosa a cavallo tra death, grind e brutal, sarà difficile mantenere inalterati gli stessi standard associandoli a genuine innovazioni“. Teorema che The Killing Gods conferma, perché le genuine innovazioni ci sono ma gli standard, beh, non sono più quelli di una volta e, signora mia, ci vorrebbero più piste ciclabili, anche perché quella sull’Aniene passa in mezzo a un campo nomadi.
Non che le innovazioni di cui sopra siano esagerate. The Killing Gods è il disco più melodico dei Misery Index ma è sempre un disco dei Misery Index. Alcuni spunti che avevano fatto capolino sul predecessore, l’eccellente Heirs to thievery, sono stati però ampliati a un punto tale da stravolgere gli equilibri del suono degli americani. C’entrerà forse l’arrivo di un nuovo chitarrista (Darin Morris al posto di Sparky Voyles, che stava nella band quasi dagli inizi e, come il leader Jason Netherton, se ne era andato dai Dying Fetus subito dopo aver registrato l’immane Destroy the opposition), ma di grind, al netto dei riff alla Napalm Death di una Sentinels, ce n’è ormai pochino. Il primo pezzo è una strumentale. Chitarre pulite che sanno di Svezia. Del resto, a giudicare dalla lista dei musicisti intervistati nel suo recente libro sulla storia del death metal (me lo devo procurare, mannaggia), Netherton conosce bene il death europeo. The calling è un mid-tempo con un lungo e melodioso assolo. The oath un’altra strumentale a tinte gialloblu. E siamo solo al terzo pezzo. Riff maideniani interpretati in un’ottica yankee: nulla di nuovo ma i Misery Index lo fanno con un approccio da ex fanzinari quarantenni che non ha nulla a che vedere con la sbobba metalcore. Anzi, i brani lenti e melodici sono anche quelli che funzionano meglio (Conjuring the cull, la stessa title-track), quasi sia questa la musica che vogliono davvero suonare oggi ma abbiano il timore che poi la sera al centro sociale li guardino storto. Perché, arrivando al discorso degli standard inalterati, gli episodi più violenti (Cross to bear, Colony collapse, dove fa un’apparizione John Gallagher dei Dying Fetus) sono anche quelli più anonimi e svogliati, anche se quello che manca davvero, in realtà, sono un paio di pezzi scapoccioni con il coro da cantare a pugno alzato. Tipo Traitors, per dire. Anche una dose aggiuntiva di ignoranza non avrebbe guastato ma lì il problema sono i soliti stramaledetti suoni artificiali e freddini, ai quali non ci siamo ancora rassegnati del tutto.Dopo un discone come Heirs to thievery e un cambio di formazione, una prova di transizione ci può stare. Non vorrei, però, che questa transizione diventi perpetua, perché non immagino i Misery Index disposti a cambiare formula più di tanto, sebbene lo scivolone qualitativo dall’ipotetico lato A del disco (il più fresco e sperimentale) al lato B (il più tradizionalista e noioso) faccia capire benissimo dove penda oggi la loro creatività.
Chissà cosa ne avrebbe pensato Nunzio. Ma oggi Nunzio non recensisce più dischi grind. Oggi Nunzio interpreta il ruolo di protagonista nella serie Gomorra:
Nunzio, torna. ‘sta casa aspetta a te.