Miti e leggende sull’articolo 18

Creato il 23 settembre 2014 da Propostalavoro @propostalavoro

Si parla di articolo 18 ormai da anni, come se l’abolizione o, al contrario, il suo mantenimento, fosse la panacea di tutti i mali che il nostro paese sta affrontando in tema di lavoro. Ma è davvero così determinante mantenere o meno l’articolo 18?

Vediamo innanzitutto come cambia nelle attuali intenzioni del governo.  L’abolizione dell’articolo 18 elimina il diritto al reintegro nel posto di lavoro per i licenziati senza giusta causa o giustificato motivo che resterà solo nei casi di licenziamenti discriminatori – come religione, politica, opinioni sindacali e razza – mentre negli altri casi l'azienda potrà licenziare il lavoratore pagando un'indennità crescente in rapporto agli anni di servizio prestati. Chiariamo dunque il primo punto, non è che abolendo l’articolo 18 il datore di lavoro può licenziare a suo piacimento, ma può licenziare in determinati casi pagando al lavoratore un’indennità economica proporzionale agli anni lavorati. Chiariamo un altro punto. L’articolo 18 si applica (o forse dovremmo dire applicava) solo alle aziende con più di 15 dipendenti (5 nel caso di aziende agricole). Dunque, quante aziende sono realmente interessate dall’articolo 18? Secondo un calcolo della CGIA di Mestre le aziende interessate dall’articolo 18 sono il 2,4 per cento del totale. Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, invece, la questione del reintegro interessa  il 57,6% dei lavoratori  perché lavorano in aziende con più di 15 dipendenti. Naturalmente parliamo di una platea di possibili “beneficiari” che non verranno per altro toccati dalla Riforma visto che le modifiche si applicheranno esclusivamente ai nuovi assunti.

L’articolo 18, per altro, era già stato toccato dalle modifiche della riforma Fornero che aveva eliminato il reintegro nel caso di licenziamento per motivi economici, prevedendo solo il risarcimento, mentre nel caso di licenziamento disciplinare, se il fatto non sussisteva era stato previsto il reintegro immediato più l’indennità, negli altri casi il giudice poteva condannare il datore di lavoro al solo pagamento di una indennità di 12-24 mensilità in base all’anzianità del lavoratore. Questo per dire che l’anima dell’articolo 18 era già stata toccata due governi fa, ma ancora oggi si insiste nel volerne parlare come di una questione di vitale importanza.

E in Europa come stanno messi? In quanto a licenziamenti i lavoratori in Germania, Francia, Inghilterra, Spagna e Olanda se la passano peggio di noi, o per lo meno di quanto vorrebbe chi difende l’articolo 18. Solo per fare qualche esempio: in tutti questi paesi il giudice gode di un’ampia discrezionalità nell’accertare l’esistenza di un licenziamento per giusta causa; in tre di questi paesi si può licenziare per scarso rendimento senza dimostrare che gli scarsi risultati dipendano da negligenza del lavoratore;  si può licenziare per motivi economici anche quando l’azienda non versa in condizioni di crisi, ma solo per guadagnare competitività sul mercato. E ancora, in tutti e cinque i paesi citati,  nel caso in cui l’azienda compri macchinari può licenziare i lavoratori prima assegnati alle mansioni svolte dai macchinari acquistati.

Insomma possiamo davvero immobilizzarci per anni su una discussione sull’articolo 18? Non ce lo possiamo permettere, la maggior parte dei lavoratori nel panorama attuale non è nemmeno sfiorato dalle eventuali tutele dell’articolo 18. Di che parliamo allora? Di una sterile e obsoleta questione ormai anacronistica e del tutto inutile ai lavoratori che compongono la platea dei disoccupati e dei precari del nostro paese.

Alessia Gervasi


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