Mi propongo qui di analizzare alcuni miti, molto sentiti in questo periodo, non di recente invenzione, estremamente pericolosi a causa del loro apparente potere esplicativo (e quindi, della facilità con cui se ne può fare uso propagandistico), ma soprattutto perché sviano l’attenzione dal bersaglio vero, lasciando intatta la sua legittimità: il funzionamento del potere pubblico.
Il primo mito, caldeggiato fortissimamente dai grillini, è quello dell’onestà dei politici. Essi, abbagliati dai discorsi sull’antipolitica (fortissimi da tangentopoli in poi), convinti che il male del nostro tempo sia costituito dai continui ladrocini dei politici, dalla loro avidità, dal loro perseguire più interessi particulari invece del famigerato bene del paese, credono che, sostituendo gli attuali esponenti con dei cittadini onesti, probi ed incorruttibili, scomparirebbero finalmente gran parte dei problemi dei poteri pubblici. Il cittadino onesto, un po’ sconcertato da questa affermazione, potrebbe chiedere: “Vorresti negare che i nostri politici non siano altro che dei ladri da strapazzo; non meritano forse d’esser cacciati a pedate? E non preferiresti persone oneste a persone disoneste?”. In effetti non dico questo; sostengo invece che, quand’anche prendessimo 800 cittadini onesti e dai comportamenti (finora) irreprensibili, e li sostituissimo di colpo agli attuali deputati e senatori, le cose non migliorerebbero un granchè. Il buon Benedetto Croce, poco citato ed ancor meno studiato, scriveva:
“Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa della «onestà» nella vita politica. L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta di areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese”
Il secondo mito, che s’affianca senza contrapporsi al primo, è quello dell’uomo competente; dell’uomo, cioè, preparato, che ha studiato (magari è munito di master e dottorato), che ha dimostrato nel proprio campo professionale di saper fare. Ad onor del vero, e per onestà intellettuale, va segnalato che il primo ad aver cavalcato questi due miti è stato Berlusconi, quando si presentò nel ’94 con il progetto del “Polo del buon governo”. Fu lui il primo a proporsi come antipolitico (nel senso di contrapposto a quel che erano e rappresentavano i politici), come portatore d’una mentalità fortemente pragmatica, al di là di schemi ideologi oramai crollati, incarnazione vivente del mito del fare. E non fu sempre lui per primo, forte degli strabilianti successi conseguiti in ambito imprenditoriale, a voler portare tale mentalità nella politica, al fine di “bonificarla”? L’idea era che, una volta individuati quali interventi effettuare, ed affidato il compito ad uomini capaci, riuscire fosse un gioco da ragazzi. Non posso allora negarvi il fortissimo senso di deja vu quando, il fu Fermare il Declino, ha provveduto ad aggiungere alla sigla un clamoroso FARE (per fermare il declino); quasi ne costituisse una riproposizione, ma scevra di quegli elementi che, secondo loro, ne avrebbero determinato il fallimento. Lo stesso Berlusconi, ben presto, si rese conto che fare politica, governare un paese, era cosa ben diversa dal governare un’azienda; storica rimase una battuta al suo arrivo a Palazzo Chigi “ma io qui non posso decidere nulla, non posso neanche sostituire un usciere che non lavora bene!”
Il problema è che essere persone oneste e competenti, in grado di fare, non basta; per dirla in altri termini, la capacità è sicuramente una condizione necessaria, ma per nulla sufficiente. Ancor di più: il problema dei tecnici, in primis degli economisti, è d’esser abituati fin dai banchi di scuola a ragionare come se esistesse un saggio benevolente e onnipotente, al quale offrire le loro integerrime ricette di rigenerazione sociale (ad onor del vero è errore anche dei libertari, che si limitano ad analisi dei fenomeni, sperando che in qualche modo le misure da loro auspicate vengano, non si sa per quale miracolo, applicate). E, quando vedono che i loro suggerimenti non vengono applicati, non riescono a spiegarselo se non additando la malafede dei politici, o la loro incompetenza (più spesso tutt’e due). Da qui, a provare essi stessi a proporsi, non più nelle vesti di consiglieri del principe, ma come diretti esecutori, il passo è breve.
Questo ragionamento ha una conclusione precisa: la politica va lasciata ai politici. Esiste, in sostanza, una téchne propria della politica, non assimilabile ad altre. Certo, oggi non ci sono in giro che mezze tacche, e risulta difficile fornire esempi in questo senso; ma scorrendo attentamente l’almanacco, scopriamo che Cavour fu un vero politico. Egli che compì un miracolo (non discuto della desiderabilità o meno di quel fece), partendo da una situazione apparentemente impossibile. E quel che fece Cavour unificando l’Italia fu un miracolo politico, non tecnico, non economico o chissà che altro; valutarlo in questi termini, o chiedersi se Cavour sia sempre stato onesto, giocando pulito, o se nel privato partecipasse ad orge insieme ai trans, o si drogasse, significa non capire di cosa parliamo. Se pensiamo al fatto che, per convincere Napoleone III ad allearsi col Piemonte, non esitò a chiedere aiuto alla cugina, la Contessa di Castiglione, che per un anno divenne l’amante dell’imperatore alla corte di Francia; se pensiamo agli escamotage che dovette usare per tenere a bada Vittorio Emanuele II, o a chissà quanto ha dovuto fare in termini di trucchi, ripicche, ed inganni per riuscire nel suo intento, vediamo che la politica è un affare a sé; e ridurla a criteri di onestà e competenza significa non aver capito nulla della politica.
Abbassare in modo consistente spesa e tasse, riformare sul serio la macchina pubblica in modo da dare il via ad un nuovo processo di accumulazione, è impresa da politico, non da tecnico, o da professore. Bensì da politico vero, che sappia cosa è la politica; che conosca la macchina statale e burocratica; che sappia quali e quanto grandi siano gli interessi in gioco. Non ci vuole nulla per stabilire a tavolino cosa e dove andare a tagliare. La vera difficoltà è (in una democrazia parlamentare, certamente) raggiungere i consensi necessari; ed una volta raggiunti, utilizzare tali consensi per conseguire l’obiettivo. Si tratta di fare alleanze, di capire a chi giova quel che vogliamo fare, e convincerlo ad aiutarci; ad esser flessibili, adattandosi alla realtà della cose, avanzando passo dopo passo, senza perdere di vista l’obiettivo, sapendo gestire inevitabili proteste ed ire che monteranno nel momento in cui si andranno a sottrarre benefici. Sapendo resistere a campagne martellanti ed anche diffamatorie, senza fare marcia indietro: tenendo duro.
Fare ciè è maledettamente difficile; per come è, infatti, congegnata la macchina statale, essa contiene in sé un meccanismo per il quale la spesa è destinata ad espandersi sempre; e non si pone rimedio con gli onesti e i competenti. Abbiamo milioni di persone che hanno un interesse sia specifico che generale affinché tale spesa aumenti, dai politici ai burocrati, agli impiegati pubblici (e relativi parenti), finanche a chi aspira a diventar tale; che tra l’altro, statistiche alla mano, votano più di chi non trova impiego nel pubblico, influendo maggiormente sui risultati elettorali. Ma va detto che, se anche nascesse una persona in grado di fare ciò (una Thatcher italiana), il problema dell’ineluttabile espansione del bilancio pubblico si ripresenterebbe comunque nel medio termine; stante gli interessi in ballo; stante l’idea, condivisa da tutti (fuori d’un manipolo di pazzi libertari), che quando si verifichi un qualsiasi tipo di bisogno sociale, allora debba pensarci lo stato.
Non sarà il pragmatismo a salvarci, o la cultura del fare. Col pragmatismo siamo arrivati dove siamo oggi; passo dopo passo, a poco a poco. La svolta dovrà essere a 360°. Fino a quando non capiremo che lo stato fallisce, quanto se non più del mercato. Fin quando non capiremo che non bisogna affidarsi alla risoluzione collettiva delle varie problematiche che a mano a mano si presentano; che la politica e lo stato non devono avere in nessun modo finalità palingenetiche; e che a politici e burocrati vanno il più possibile legate le mani. Legate, bloccate in modo inderogabile (penso in primo luogo a Buchanan e alla costituzione fiscale in primis), in modo che si possano occupare solo di certe cose, e solo fino ad un certo punto (tetti invalicabili a spese, tasse e debito). Ebbene, fino a quel momento, la situazione non potrà essere davvero migliore di quella che vediamo. E continueremo a vivere in catene, condannati a sottostare agli arbitrii del potere pubblico, prima ancora che al declino economico.
tratto da http://thefielder.net/13/02/2013/miti-propaganda-e-potere-pubblico/#.URvNnqV18S1