Quando durante il nostro viaggio in macchina nel Libano meridionale i miei compagni mi hanno proposto di visitare il Mleeta Resistance Tourist Landmark, il museo-memoriale istituito per onorare la lotta degli Hezbollah contro l’occupazione israeliana, sapevo che sarebbe stata un’esperienza affascinante. Quello che non mi aspettavo era di trovare un’opera non solo molto profonda dal punto di vista storico e culturale, ma anche estremamente ben realizzata e coinvolgente.
Mleeta è una collina remota situata nella regione di Nabatieh, a circa 70 chilometri da Beirut. Ci arriviamo dopo innumerevoli tornanti, osservando le strade restringersi gradatamente e invocando ripetutamente l’aiuto degli amichevoli passanti. Qui dal 1985 al 2000 la resistenza libanese ha combattuto l’avanzata dell’esercito israeliano ricorrendo a tecniche di guerriglia e di sabotaggio, opponendo all’impressionante arsenale nemico coraggio, spirito di sacrificio e fede. Non è senza ragione che la collina viene definita dagli stessi curatori del museo “il luogo in cui la Terra parla con il Paradiso”.
Dopo aver pagato un ingresso irrisorio, i visitatori possono avvalersi gratuitamente della guida di un militante hezbollah per scoprire il complesso percorso realizzato all’interno del sito. Nell’area centrale una ricostruzione artistica del campo di battaglia mostra macerie, veicoli corazzati, elementi di artiglieria e di equipaggiamento militare. Ogni frammento di quella dolorosa esperienza è stato ricollocato con cura per esprimere la violenza degli scontri, ma il coronamento di un successo collettivo lungamente cercato e contrario a ogni probabilità.
In una sala multimediale un breve filmato (disponibile in arabo e in inglese) introduce i visitatori alla storia di Hezbollah e del museo. Nella sala espositiva, invece, sono raccolti decine di reperti militari, ciascuno portatore di una storia di coraggio e di eroismo, ciascuno rappresentante una piccola vittoria contro gli invasori. Nelle parole dei leader israeliani riportate sulle pareti, si esprime la sorpresa e lo sconcerto nell’essere stati costretti ad ammettere la sconfitta contro un manipolo di guerriglieri dalle risorse esigue e le cui uniche esperienze militari pregresse erano costituite dagli episodi di guerriglia in ambito del conflitto palestinese.
Dietro la sala espositiva si apre il percorso tra le trincee. Nella fitta vegetazione collinare un sentiero conduce verso stralci di vita al fronte, attraverso reperti e ricostruzioni fedeli di quelle che dovevano essere le condizioni delle migliaia di mujahedeen che qui si sono asserragliati durante gli anni. Ci sono armi automatiche, fortificazioni, un rifugio e una galleria sotterranea su cui si affacciano vari ambienti di funzione logistica. Ogni tappa è accompagnata da un cartello esplicativo in arabo e inglese. Sul ritmo dei nostri passi la voce della nostra guida narra il dramma vissuto dai suoi compatrioti, i sacrifici a cui si sono sottoposti pur di non cedere all’avanzata del nemico sulla loro terra.
Nato nel 1982, Hezbollah – “il partito dio” – voleva offrire una risposta comprensiva, dal punto di vista militare, sociale e culturale, all’invasione che Israele aveva avviato per demolire la resistenza palestinese che proprio in Libano aveva trovato rifugio. Il suo scopo principale era quindi la resistenza contro Israele, ma i suoi leader svilupparono un progetto più ampio che puntava a realizzare nella società civile i precetti indicati nel Corano.
Nel suo libro “Hizbollah – The Story from Within”, Sheikh Naim Qassem, fondatore del partito e suo vicesegretario dal 1991, spiega come inizialmente lo scopo fosse offrire una guida spirituale ad una popolazione vessata da vent’anni di conflitti. Nel loro orientamento è presto comparso il concetto di Jihad, la guerra santa che i leader hezbollah hanno sempre concepito con la doppia ambivalenza di difesa della terra dell’islam e lotta interiore per mantenere la rettitudine spirituale.
Per quanta riguarda la difesa della terra, l’evidente riferimento era l’occupazione israeliana, ma anche l’occupazione della Palestina rappresentava un punto imprescindibile della Jihad. Un progetto puramente difensivo quindi, perché la religione del profeta non può giustificare l’invasione di un altro popolo.
Anche la realizzazione di uno stato islamico era vista in termini di confronto e collaborazione: Hezbollah, cioè, rinunciava categoricamente a qualunque strumento violento per portare l’applicazione dei dettami islamici nella vita civile. Tale risultato, scrive Qassem, va perseguito attraverso la strada della politica e della diplomazia.
“Confonderci con i gruppi islamisti attivi in Siria e Iraq è un grave errore – ci aveva ammoniti la nostra guida – loro raccolgono le frange più disperate della popolazione promettendo loro il Paradiso, la nostra è un’organizzazione di persone colte che lavora per migliorare la vita del nostro popolo.”
Inizialmente l’organizzazione agiva in silenzio. Centinaia di operazioni militari contro l’esercito israeliano e i suoi collaboratori venivano portate a termine con successo, ma senza mai essere rivendicate. Ma l’azione di Hezbollah non si limitava alla guerriglia, tra i suoi interventi più importanti c’era anche la ricostruzione dei quartieri di Beirut e dei villaggi libanesi sottoposti al violento bombardamento di Israele e il rilocamento degli sfollati.
Nel 1990 Hezbollah si è costituito partito politico e ha partecipato alle elezioni amministrative del Paese. Il suo intento, però, non sarà mai quello di sostituirsi al governo libanese, ma di aprire un dialogo verso le altre forze politiche e verso l’opinione pubblica internazionale.
Israele e Stati Uniti accusano il partito di essere una formazione terrorista. Ed è vero, tra i suoi obiettivi Hezbollah ha incluso in passato anche alcune installazioni civili israeliane nei territori occupati, ma i leader del partito ribadiscono che si trattava di una risposta all’altrettanto cruenta uccisione di civili libanesi da parte di Israele e comunque un’opzione avvallata solo nel caso in cui gli obiettivi militari fossero stati fuori portata.
E poi c’è la questione del martirio, un concetto che non manca mai di inorridire le società occidentali. Senza il sacrificio di centinaia di militanti Hezbollah non avrebbe mai potuto conseguire lo straordinario risultato del ritiro israeliano nel 2000, ponendo fine a 22 anni di occupazione. Israele era – ed è ancora – di gran lunga la più imponente potenza militare del Medio Oriente. La sua sconfitta è stata un evento epocale, un terremoto inaspettato.
Ma il martirio, secondo Qaleem, è un gesto estremo, un atto di fede e di coraggio per il bene comune valido solo nel caso in cui tutte le altre opzioni si siano dimostrate inefficaci. Sin dalla sua nascita l’organizzazione attrae a sé un numero ingente di giovani desiderosi di immolarsi per la resistenza, ma Hezbollah seleziona accuratamente i suoi membri e invia solo una parte di essi a svolgere vere e proprie operazioni militari.
Dopo il ritiro di Israele, il partito continua a intervenire nella vita politica del paese e un ruolo importante nel mantenimento della sicurezza nel sud del Libano è tutt’ora affidato alle sue truppe. L’appoggio e l’influenza dell’Iran è evidente, tanto quanto le pressioni applicate da Israele e Stati Uniti sul governo di transizione per obbligare Hezbollah al disarmo. Oggi come allora, però, il partito continua a godere di un appoggio trascendentale in Libano non limitato né dalla religione né dall’appartenenza politica.
Informazioni utili
Mleeta Resistance Tourist Landmark
Il sito apre i cancelli ogni giorno dalle 9 al tramonto.
Il tour completo richiede circa 2-3 ore.
Il sito è gestito dalla Lebanese Association for Tourism & Tradition e al suo interno operano militanti di Hezbollah che si offrono gratuitamente come guide e garantiscono la sicurezza dei visitatori.
Dove si trova Mleeta?