“Prendete qualsiasi sentiero vi piaccia. Nove volte su dieci vi condurrà all’acqua. L’acqua ha qualcosa di magico che strappa gli uomini alla terra e li conduce oltre le colline, ai torrenti, ai fiumi, fino al mare. Il mare, dove ciascuno, come in uno specchio, ritrova sé stesso.” (Ismaele)
“Dal cuore dell’inferno, io ti trafiggo! In nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te, o maledetta bestia!” (Capitano Achab)
Il giovane marinaio Ismaele, giunto a Nantucket in cerca di lavoro, si imbarca sulla baleniera “Pequod” insieme al suo amico indigeno Qeequeg. La nave è guidata dal folle capitano Achab, tormentato dal ricordo dell’aggressione subita anni prima da parte di Moby Dick, a cui deve la perdita di una gamba. L’intero equipaggio finirà coinvolto nella tragica caccia al bianco capodoglio di cui Achab vuole vendicarsi ad ogni costo.
“Chiamatemi Ismaele”. Si apre in questo modo il celeberrimo racconto di Moby Dick, scritto dallo statunitense Herman Melville e pubblicato per la prima volta nel 1851 con il titolo originale The Whale. Un incipit straordinario, tra i più noti e meglio riconoscibili nell’ambito della letteratura contemporanea, il quale lascia già intuire la forma grave e solenne di un romanzo dall’incommensurabile valore artistico, non privo peraltro di una sua invidiabile ironia. Benché la vicenda monomaniaca che oppone il capitano Achab al titanico esemplare di capodoglio albino sia comunemente risaputa nel suo svolgimento, nonché facile a descriversi di per sé stessa, la fruizione dell’opera rimane nel complesso una sfida ardua ed appagante: il punto di forza del lavoro di Melville, ciò che lo rende un autentico Capolavoro, va individuato nel fatto che l’autore non si limita a narrare la semplice storia di una logorante ossessione, ma si spinge oltre i confini ordinari dell’esperienza umana avventurandosi egli stesso nel mare aperto dell’ignoto, per realizzare così una coraggiosa e sconcertante meditazione su grandi temi di natura etica, scientifica, religiosa, filosofica, artistica. Lo scrittore americano, dimostrando una completa padronanza del mezzo letterario, sigla un romanzo multiforme e stratificato, ricco di approfondimenti e digressioni, stilisticamente innovativo e destinato a fare da precursore al modernismo di inizio Novecento (con riferimento soprattutto a James Joyce).
Moby Dick è stato oggetto di diversi tentativi di trasposizione cinematografica (a cui occorre aggiungere alcune modeste versioni diffuse solo sul circuito televisivo): i primi due, risalenti all’epoca del muto – Il mostro del Mare del 1926, e Moby Dick, il mostro bianco del 1930 – appaiono di scarso interesse, principalmente a causa del fatto che deviano non poco dai toni e dalle situazioni del racconto originale; molto più fedele e rilevante appare invece la successiva, terza versione del 1956, diretta da un regista dalla mano sapiente e dallo sguardo acuto come John Huston. Prendendo atto dell’oggettiva impossibilità di rappresentare sullo schermo quel fitto intreccio di allegorie, riflessioni, approfondimenti tematici, che rendono la fonte letteraria tanto affascinante, il film risponde alla sfida concentrandosi sulla ricostruzione di una densa atmosfera, ottenuta sia drammatizzando la dimensione dell’eterno conflitto tra il capitano del “Pequod” e l’enorme capodoglio, sia enfatizzando i risvolti psicologici dei personaggi di maggior spicco, senza per questo rinunciare mai al gusto più squisitamente scenico ed avventuroso del racconto. Le due ore della visione regalano infatti un’esperienza il cui ritmo ha il merito di risultare sempre e perfettamente sostenibile, per poi decollare nella travolgente conclusione che dischiude un vortice tecnico-narrativo dal sicuro impatto emozionale. Fondamentale, in tal senso, l’apporto fornito dagli ottimi dialoghi, dalla fotografia di Oswald Morris, che impressiona sequenze marinaresche di indubbia efficacia, e dagli effetti speciali i quali, pur risultando facilmente datati agli occhi dello spettatore odierno, offrono comunque uno spettacolo godibile grazie soprattutto alle gigantesche proporzioni del bianco esemplare di leviatano che dà il titolo all’opera.
Una nota di merito particolare va poi dedicata all’ interpretazione dei protagonisti: se in generale il livello di recitazione va ad attestarsi su livelli esemplari, esso riesce addirittura a sfiorare vette di eccellenza per quanto riguarda la tragica figura del capitano Achab, resa da un Gregory Peck quanto mai truce e statutario, e quella del comprimario Leo Genn, che veste in modo assai convincente i panni del timorato Starbuck, primo ufficiale a bordo del “Pequod”; impossibile, infine, non citare il breve ma indimenticabile sermone di Padre Mapple, impersonato dall’istrionico Orson Welles il quale, durante la funzione domenicale, rammenta l’episodio biblico di Jonah parlando agli astanti dall’alto di un pittoresco pulpito scolpito a forma di nave (la cui realizzazione risulta molto vicina al testo di Melville).
Complessivamente, il lavoro di Huston appare intelligente e rigoroso, indubbiamente meritevole: consapevole delle specificità mediali che rendono impossibile citare le impressionanti digressioni presenti nella versione letteraria, il regista non ha tuttavia sacrificato la correttezza filologica del racconto originale, confezionando un’opera tanto solida quanto affascinante, capace di offrire ancor oggi un buon intrattenimento avventuroso dall’ampio ed epico respiro.
Titolo originale: Herman Melville’ s Moby Dick
Anno: 1956
Paese: USA
Durata: 116
Colore: Colore
Genere: Avventura
Regista: John Huston
Cast: Gregory Peck; Leo Genn; Richard Basehart; Friedrich von Ledebur; Edric Connor; Orson Welles.
Valutazione: 4 su 5 – Buono
Davide “Vulgar Hurricane” Tecce
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