by Valentina Fontanella
Ieri sera stavo giusto leggendo (e condividendo) l’articolo “Se hai vent’anni vattene dall’Italia” quando mi capita sotto gli occhi un pezzo che il FashionCamp ha dedicato a Veronica Crespi, una delle nostre connazionali che è espatriata, andando ad occuparsi di moda etica oltralpe: Londra, per l’esattezza.
Una delle riflessioni di Veronica:
“E’ un vero e proprio paradosso: l’Italia sarebbe il territorio ideale per un tipo di moda incentrata sulla qualità della fattura, e che ha il vantaggio (economico per chi produce, ed ambientale) di una filiera molto corta. Invece proprio noi, creatori dello stile, ci facciamo invadere dalla moda cheap & trendy delle grandi catene, che sono tutte straniere. Certo, ci sono sempre le grandi firme italiane, ma ormai ciò che importa è solo la griffe, che non è più necessariamente sinonimo di qualità, e soprattutto – la cosa peggiore, questa – non è più garanzia di Made In Italy. Proprio i nostri stilisti hanno portato la maggior parte della produzione all’estero e stanno così contribuendo all’avvizzimento della nostra industria manifatturiera. E’ qui che io insisto che siamo noi consumatori a dover reclamare il ritorno a ciò che il Made In Italy è stato e può ancora essere – per esempio smettendo di comprare cosette da poco da Zara & Co.”
Purtroppo qui in Italia ormai la situazione economica è talmente tragica che spesso non ci si può nemmeno permettere Zara. A fronte del tasso di disoccupazione e dell’infimo potere d’acquisto delle buste paga che rimangono, lo shopping ha assunto tutta un’altra faccia: quella che non ci saremmo mai aspettati e che ci costringe ad evitare i negozi.
Ma a parte l’importantissima questione etica che sta alla base dei brand low cost come Zara, H&M e molti altri e che riguarda lo sfruttamento del lavoro e l’inquinamento ambientale, vogliamo parlare del fatto che la maggior parte dell’eccellenza italiana del settore moda ha spostato all’estero le produzioni senza nemmeno far finta di abbassare i prezzi? Certo, il prezzo fa parte dell’identità aziendale e del posizionamento, ma se proprio dobbiamo puntare il dito, facciamolo anche contro chi, oltre a danneggiare il mercato del lavoro interno, aumenta i propri profitti senza comunque rispondere all’elemento etico. Dal punto di vista del danno ambientale, ad esempio, l’unico ad avere preso impegni formali di fatto è Valentino.
Se proprio bisogna comprare da dei poco di buono, tanto vale comprare a basso costo.
Il vero Made in Italy, quello di filiera corta a basso impatto e che usa manodopera locale, in alcuni casi campa grazie alle esportazioni, quando può e ne ha i mezzi: il lusso vive quasi esclusivamente di etichette con nomi altisonanti, e poco importa cosa c’è dietro.
Veronica, hai fatto bene ad andartene: un conto è la lotta dura, un conto sono i mulini a vento.