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Sono gli intellettuali e gli ambiziosi che interessano a Zweig: coloro che, faustianamente, osano venire a patti con la divinità e con gli inferi, osano sfidare ogni malcontento di fondo, ma soprattutto i propri limiti e una situazione di tiepida quiete. I protagonisti di questo libro sono, in parte, coloro ai quali i libri scolastici dedicano interi capitoli, in parte dei nomi ingiustamente estromessi dalla fama che meriterebbero. L'autore è forse enfatico, nel designarli, e ricorre a formule che apparentano l'un l'altro queste anime elette, ma non è mai banale e, meno che mai, sleale: sa guardare alle cose con uno sguardo franco e diretto.
In particolare, Zweig mostra di avere una concezione fortemente spirituale del mondo e della storia, come di un orizzonte iperurnaio al quale solo per volere divino si può accedere. Non è la prima volta che leggo, nelle sue pagine, di un accesso alla fama e alla gloria che somiglia tanto alla salvezza ottenuta per volontà divina. La storia è una donna leggiadra e aristocratica, è un organismo che procede, di balzo in balzo, sulle eccellenze, talvolta misconosciute, ma pur sempre un tappeto di titani. Talvolta, poi, questi giganti non riescono esserlo fino in fondo (penso all'occasionale successo di Rouget de Lisle, autore ignoto della Marsigliese) o a circondarsi di un mondo che possa contribuire all'entusiasmo per un'opera colossale (come la Bisanzio isolata in preda all'assalto dei Turchi): da qui, i momenti di solitudine, lo sconforto e le occasionali sconfitte; ma, soprattutto, da qui misuriamo la pochezza di molte vite, incapaci di accogliere speranze e il carattere che la storia richiede.
È senz'altro il genio a incantare Stefan Zweig, l'improvviso e provvidenziale enthousiasmos - invasamento, e non euforia - della grazia, o l'insorgere inarrestabile di una natura capace di sovrastare l'indifferente corsa degli eventi. E, se di quegli eventi, fa parte l'uomo stesso, poco male: non tutti i quattordici scritti rendono ragione del titolo di questa raccolta, a volte sembra anzi che le circostanze (come nella missione di Robert Scott al polo sud) o l'inadeguatezza (come nel rapporto tra Napoleone e Grouchy a Waterloo) abbia la meglio sulle persone. Me non è così: la determinazione, anche quando è nell'errore (come nei due capitoli finali dedicati a Cicerone e Wilson), e la forza di superare ostacoli, o la stessa ipotesi (contemplata) di un passo falso fanno sì che l'Uomo di cui parla Stefan Zweig sia comunque un eroe, una stella-guida per i pari e per l'intera umanità.
Esemplare più di ogni altro, da questo punto di vista, anche se non per forza il migliore, il lungo capitolo dedicato a Tolstoj e alla sua triste fine, scritto come epilogo scenico di E la luce splende nelle tenebre. La struttura drammaturgica restituisce qui con forza il carico intellettuale ed emotivo di questi "momenti fatali", sottoposti come sono a una dialettica forte e non a una qualche necessità o predestinazione. La storia, disponibile ad accogliere chiunque ne sappia sostenere il passo e il peso, consente ad alcuni di entrare e uscire dal suo grembo attraverso momenti unici, irripetibili, che a volte consegnano l'uomo alla gloria, altre volte lo guidano - cieco - alla sua ineluttabile disfatta. Come se quelle stelle polari della memoria collettiva fossero anche sacche dove la nostra vita si acquatta o si perde per sempre.
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