Magazine Cinema
Canada, 2014
134 minuti
Ci voleva il Gran Premio della Giuria all'ultimo Festival di Cannes perchè per il venticinquenne Xavier Dolan, al suo quinto film, si aprissero finalmente le porte delle sale cinematografiche italiane. E non è da escludersi che in molti, di quelli che si accosteranno al cinema del talentuoso canadese (a maggior ragione chi, è ancora profano dei suoi trascorsi), potranno anche gridare a Mommy come un capolavoro, perchè effettivamente, l'opera non può che presentarsi come una fulgida scheggia carica di vibrazioni nella convenzionalità di quanto proposto generalmente nei nostri cinema.
Quindi, anche se per alcune cadute di tono del tutto opinabili (qualche cedimento nella stesura, scelta musicale personalmente inferiore ai trascorsi, un finale poco convincente) l'entusiasmo nel sottoscritto non ha raggiunto gli stessi livelli dei film precedenti, è altresì giusto riconoscere a tutti gli effetti che, ormai consapevole d'aver ottenuto una padronanza del linguaggio filmico che ad ogni tappa sembra farsi sempre più universale, Dolan colpisce ancora una volta nell'emotività più istintiva dello spettatore mettendo in scena il difficile, burrascoso e quasi edipico rapporto tra una madre (un'intensa Anne Dorval, eterna mommy dolaniana, esemplare incarnazione dell'amore/coraggio materno) e il proprio figlio quindicenne, affetto da ADHD (Sindrome di iperattività e decifit d'attenzione). Patologia, che per la sua gravità porta il ragazzo a improvvise alterazioni di violenza tanto da impedire alla madre la conduzione di una vita regolare (con tutti i rischi che ne conseguono) finchè quest'ultima, non si trova costretta a farlo nuovamente rinchiudere nell'ennesimo centro specializzato. Una temporanea stabilità della situazione avviene con l'entrata in scena della nuova vicina di casa; un'ex insegnate dal comportamento acquiescente, con problemi di balbuzie, che sembra trovare nella loro vita un senso di completamento a una condizione famigliare apatica, ed enigmatica (nulla, verrà effettivamente chiarito sul suo passato). Si instaura così un rapporto di complicità che porterà infine queste tre esistenze, a guardare al futuro con sguardo diverso, rinnovato.
Se da un lato, si può considerare Mommy come un passo indietro nella filmografia di Dolan, le cui tematiche vanno in qualche modo a ricalcare quelle delle prime opere (la stessa complessa relazione madre-figlio dell'esordio, J'ai tué ma mère, nonchè questa sorta di convivenza à trois, che ricorda il successivo Les Amours Imaginaires) e al contempo, si discostano anche dalle atmosfere thriller di Tom à la ferme (che osservato ora, sembra un pesce fuor d'acqua nella pop-poetica caleidoscopica del canadese), tecnicamente, però, è proprio da quest'ultimo che ne riprende certi sperimentalismi giocati con il formato video. Notare infatti, che l'originalità stilistica in Mommy risiede in un desueto aspect ratio quadrato (1:1) concepito sostanzialmente per accentuare in maniera claustrofobica il dramma relazionale e l'oppressione del giovane protagonista. Una morsa, che concettualmente funziona in maniera inversa a quanto espresso nel film precedente; là, dove il 16:9 orizzontale si appiattiva correlativamente ai momenti di crescente tensione fino ad assumere l'aspetto di un CinemaScope ultrapiatto (2.55:1), quì, la costrizione dettata da un'immagine che rappresenti il disagio interiore è il piedistallo di partenza per progredire verso una sentita liberazione che metaforicamente, è svelata per la prima volta nell'istante in cui le mani del ragazzo allargano l'inquadratura, dandoci l'opportunità di osservare dettagli fino a quel momento celati nell'invisibilità delle bande nere laterali, e donando così all'immagine l'ampio respiro di quella libertà urlata in mezzo alla strada. Operazione, che Dolan ripete magistralmente nell'idilliaca sequenza del sogno "a ciel sereno" (o più appropriatamente, "a schermo pieno"); momento altissimo, che per il suo astrattismo di luci e colori, out of focus e accompagnamento sonoro, si rivela senza dubbio tra i più emozionanti ed estatici mai raggiunti nella filmografia dell'autore, e non solo. Ed è in questo istante, immaginifico, che Dolan sfoggia tutta la sua esuberante vitalità artistica; in un concentrato di cinque minuti c'è l'intera forza poetica di Lawrence Anyways (per il sottoscritto, vetta ancora oggi ineguagliata), e la smisurata passione di un giovane che, come scriveva Giona Nazzaro nel suo articolo su Uzak, "adora intossicarsi nelle materie vive del suo cinema". E ora più che mai, raggiunto il traguardo di una più estesa popolarità, possiamo solo augurarci e sperare, per il futuro, che Dolan prosegua il suo lodevole percorso mantenendone però inalterata quell'anima più artistica con la quale, fino ad oggi, è riuscito magnificamente a deliziarci.
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