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“Mongolia” di Bernardo Carvalho

Creato il 25 agosto 2011 da Sulromanzo
Autore: Marcello SaccoGio, 25/08/2011 - 09:00

MongoliaBernardo Carvalho è nato nel 1960, e la letteratura è bella anche perché dopo i cinquant'anni si può ancora aspirare al ballo dei debuttanti. Nel suo Paese, il Brasile, è considerato uno degli scrittori più notevoli tra quelli emersi negli anni '90 del secolo scorso. In Italia è praticamente uno sconosciuto che si è visto pubblicare un romanzo in una collana di libri di viaggio (“Mongolia”, Feltrinelli, 2005, trad.: M. Salles de Oliveira Paes). Certo la Feltrinelli Traveller non è una collana di guide turistiche usa e getta. È un'idea editoriale che sulla storia privilegia la geografia della letteratura; senza mai abbandonarla, però, la letteratura. Eppure è forte la sensazione che questo passaggio di Carvalho per l'universo librario italiano, risalente ormai a sei anni fa, resti un atto isolato, casualmente dovuto all'esotismo oscuro di una terra come la Mongolia, apparentemente poco dotata di bibliografie ad hoc (ma nella stessa collana si può leggere anche “Dove volano gli uccelli” di Louisa Waugh, mentre per ulteriori sbalorditivi approfondimenti si consulti il sito www.mongolia.it).

Peccato, perché i libri di Carvalho esibiscono una salda, anche virtuosistica, costruzione del plot e una scrittura veloce in cui riferimenti colti ed esperienze vissute, realtà documentale e immaginazione si rincorrono, in ciò ricordando più altre latitudini letterarie che non connazionali celebri come Jorge Amado o Guimarães Rosa. I suoi romanzi intrecciano personaggi, ma soprattutto voci in partenza distanti, secondo una tecnica che forse non dispiacerebbe a Salman Rushdie. La completa contestualizzazione di tali voci si raggiunge solo nell'ultima pagina, dove non è sgradito il ricorso al twist ending a capovolgere l'universo cognitivo costruito lungo la lettura. In questo senso “Mongolia”, essendo un libro chiaramente realizzato su commissione, se non è il miglior titolo della sua bibliografia ne rappresenta comunque la quintessenza. Nato da un'esperienza di viaggio finanziata da una borsa di scrittura creativa concessa da una fondazione che si occupa di rapporti tra Oriente e Occidente, ha un incastro narrativo basato sulla tecnica, neanche a dirlo, delle scatole cinesi.

 

Un diplomatico brasiliano in pensione legge la notizia della morte violenta di un ex collega per le strade non pacatissime di Rio de Janeiro. Ma le circostanze drammatiche e poco chiare di questo assassinio sono una specie di abbaglio per il lettore assetato di truculenza, perché la storia che il libro racconta è un'altra. Salta fuori un diario, poi un altro e un altro ancora (siamo a tre). Nel primo, il diplomatico defunto, soprannominato “l'Occidentale” (alla faccia dell'etnocentrismo, qui solo i mongoli avranno nomi di battesimo) narra la sua missione sulle tracce di un giovane connazionale scomparso nel nulla in Mongolia. È un fotografo, sta lavorando a un reportage e, scopriamo lentamente, tiene due diari di viaggio che il protagonista reperisce in momenti diversi. Le idee degli appunti di viaggio e del reportage fotografico permettono di innestare, nella più classica trama investigativa, osservazioni sul costume dei popoli man mano incrociati (in particolare su concetti chiave come nomadismo e sedentarietà, tradizione e innovazione artistica ecc...) e curiosità da guida verde del Touring Club, semplici ma mai noiose, su religione, storia, geografia ecc... Si va dalla nascita dello stato mongolo moderno, seconda nazione socialista al mondo (Marx non ci avrebbe mai scommesso un penny), al canto regionale difonico; dalla dea Narkhajid, che beve sangue e ricorda un demonio del candomblé, ai falconieri cazachi, dove finalmente la ricerca sconfina e sfocia in un'agnizione in piena regola.

 

Intelligenza e senso della misura fanno sì che il libro progredisca per digressioni che non sanno mai di supefluo. Il tono è dotto, accattivante e divulgativo nella miglior tradizione, riadattata ai tempi (di lettura) moderni, del romanzo ottocentesco, quando ogni piccolo incidente era buono per raccontare la storia della fogna di Parigi o la morfologia del baobab su cui il protagonista era appena inciampato. Insomma, il romanzo d'appendice è vivo e lotta insieme a noi.


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