Avevo trovato un monolocale con cucinino in un vecchia palazzina chiamata I Dogi. Il letto si ripiegava contro il muro. Di solito non mi davo la pena di tirarlo su perché non avevo mai ospiti e il gancio sembrava malsicuro. Temevo che saltasse fuori dalla parete mentre cenavo con una minestra in scatola o qualche patata al forno. Poteva uccidermi.
E tenevo la finestra sempre aperta perché mi sembrava che ci fosse una leggera fuga di gas, anche quando i due bruciatori e il forno erano spenti. Avevo quasi sempre sonno, ero denutrito e tremante, ma non ero abbattuto. Avevo cambiato radicalmente vita e, nonostante i rimpianti quotidiani, ne ero fiero. Sentivo di essere finalmente emerso nel mondo con una pelle nuova, vera.
Seduto al bar, facevo durare un’ora una tazza di caffè o di cioccolata tenendola in mano finché potevo ricavarne un po’ di calore. Leggevo, ma senza scopo o concentrazione. Leggevo frasi qua e là da libri che avevo sempre avuto intenzione di leggere. Frasi che mi parevano spesso così soddisfacenti, così inafferrabili e belle, che tendevo a tralasciare le parole circostanti e ad abbandonarmi a uno stato tutto particolare.
Ero vigile e sognante, distaccato dalle singole persone, ma sempre cosciente della città, che mi sembrava un luogo strano, mesto, incomprensibile.