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Monotonie

Creato il 02 febbraio 2012 da Albertocapece

MonotonieIl Cortigiano moderno, ovvero Repubblica,  lo chiama humor, anzi humour alla britannica, tanto per sottolineare che qui siamo dentro la tradizione dei maggiordomi. Ma la ormai celebre monotonia di Monti, è proprio tutto il contrario: è semplicemente lo sgorgare, tra un’apparizione e l’altra, di un istinto, anzi di un’ossessione liberista contro i diritti del lavoro. E’ una vita che Monti con vera monotonia recita questo rosario ormai scollegato dalla realtà e divenuta semplice, opaca e ribalda concessione agli interessi di Marchionne l’amerikano e della Confindustria nostra che vuò ‘fà l’amerikana, mantenendo però i soliti manini all’italiana.  E naturalmente la Fornero conferma che contro l’articolo 18 si agirà comunque perché ai lavoratori non si può buttare sulle spalle anche la monotonia di avere un minimo di sicurezze sul lavoro.

Anzi mi meraviglio che non sprechi qualche lacrima per sua figlia che monotonamente ha un posto fisso all’Università di  Torino e per uscire un po’ da questa condizione alienante si è fatta allestire da mammà un centro di ricerche in biologia pagato dall’Università e dalla fondazione San Paolo. Straordinario e modernissimo, tanto da aver prodotto un solo paper firmato da un reggimento di persone e dalla figlia all’ultimo posto.  Che dire, sono lontani i tempi in cui il suo maestro, Onorato Castellino, a cui la Elsa deve la carriera, girava in Porsche Carrera tra un ragionamento e l’altro sui pensionamenti. Adesso non ci si può più accontentare di rendere impossibile la pensione, si deve rendere difficile e sottomesso anche il lavoro.

Purtroppo per gli amabili tecnici diverse ricerche condotte negli Usa, hanno dimostrato che la mobilità sul lavoro dipendente è inversamente proporzionale alla competenza che esso richiede, al netto dei cambiamenti di dizione societaria. La  mobilità è tipica del lavoro poco specializzato, con dentro meno cultura e sapere. Quello che del resto la nostra classe dirigente va approntando, togliendo risorse alla scuola e riservando solo a se stessa e al privato un insegnamento all’altezza. Tutto si tiene. 

Per la Repubblica è humour, invece è solo l’arroganza e il disinteresse di un potere afferrato al volo, strappato o avuto da sempre per esclusivi meriti familiari, a rendersi finalmente palese con il suo intrinseco “disumar”. Nessuno stupore che la frase sulla monotonia del posto fisso, apice peraltro di un inno al berlusconismo, abbia fatto così impressione e abbia finalmente strappato il sipario dei tecnicismi e delle necessità. Un barlume di realtà in mezzo alle chiacchiere e alle apparenze, al sobrio dopo il bordello. Un lampo dentro un paesaggio ottuso e mistificatorio. Per questo mi è parso che valesse la pena di riportare le reazioni di persone diverse: non sarà mai monotono come le giaculatorie liberiste. 

Monotonie

Anna Lombroso

Un Carlo V° nel cui regno non deve mai sorgere il sol dell’avvenire, ma con la schizzinosa sprezzante spocchia di Maria Antonietta. Un Monti irresistibilmente attratto dal precipizio del cinismo più stolido e infame, quello del vile tu uccidi un uomo morto, ha scelto Mediaset per rivelarsi anche ai più riottosi e renitenti a voler vedere. Sfoderando battute che non a caso hanno suscitato l’estasiato giubilo del perenne candidato al Nobel Brunetta. Certo, viene da pensare che se proprio ci deve essere una persecuzione sarebbe bene evitare quella avviata contro il popolo italiano e orientarne la potenza contro gli economisti prestati alla politica.
La rapace e disumana immoralità dell’ideologia che muove come un burattinaio questa compagine, ha mostrato il suo aspetto più sgangherato e delirante. Non a caso la sceneggiatura che la Repubblica “del male” ha definito “humour”, ha trovato il suo teatrino proprio dove quello che consideravamo a torto il profeta inarrivabile della volgarità arricchita e cialtrona, aveva sollecitato le ragazze a trovarsi un marito ricco. Che nemmeno sull’uso dei corpi sono distanti: ormai non si guarda più al genere siamo tutti uomini, donne, varie etnie, chi un po’ peggio chi appena meglio, quarti di bue, senza nome, senza diritti, appesi al gancio minaccioso di una crisi e della peggiore delle sue soluzioni.

Ma, sorprendentemente, sono sollevata. Come succede quando finalmente si assiste alla rivelazione: che in questo caso mostra che questa sobrietà, questa severità, questa austerità non hanno nulla a che fare con i sentimenti morali della nazione, anzi li aborriscono, non li stanno a sentire come se fossero una musica di fondo al ristorante, lagnanze miserevoli di questuanti. Che l’ostentata disinvolta professione di “impolitica” serviva solo a celare l’anima iniqua e classista di chi non intende rappresentare l’interesse generale preferendo invece interpretare quello di un potere ristretto, oligarchico, separato. Noi siamo altri da voi, ci ricordano, ed è meglio saperlo. Ed è preferibile sia chiaro che ci guardano con ostilità e sospetto. È un sollievo guardare cosa succede dietro, quando la tela degli equivoci si alza e si svela la macchinazione, il complotto, il delitto, il golpe. Rivelando quel retrogusto di durezza cinica dietro l’espressione frigida da diacono, la violenza prevaricatrice e integralista dietro l’algido distacco. Il rullo compressore in flanella vuol fare tabula rasa di convinzioni pluraliste, di principi democratici e di qualsiasi cultura politica chi gli opponga resistenza, di ogni traccia di memoria di valori che non siano quelli del profitto, di ogni soggetto sociale che non sia integrabile, toglie dogli la parola, come “La Fornero” fa con le rappresentanze sindacali.

Meglio che sappiamo che è in atto il golpe del dispotismo della necessità e della tirannia della “realtà”. Si tratta del complotto di un malinteso pragmatismo che già mostra qualche caduta nel pasticcio e nella fuffa, perpetrato laddove la politica ha celebrato la sua disfatta, con la resa al reale qual è, alle sue gerarchie, ai suoi rapporti di forza.
Si meglio che sappiamo che davvero questo è un ceto “impolitico” se per politica si intende l’arte della trasformazione del reale e se possibile della sua trascendenza.
E che è un ceto nemico, se ha dichiarato guerra al patto tra le generazioni, mettendo contro genitori e figli, giocando sull’equivoco di sicurezze consolidate che non esistono più. Se ha rotto i vincoli tra sfruttati: annoiati, precari, disoccupati, come se esistessero ancora immutabili e invincibili garanzie a fronte di incertezza e minaccia. Se ha penalizzato corporazioni minori premiando grandi gruppi, organizzazioni muscolari, oligopoli potenti.
E se ha mosso un attacco frontale nel quale non vuol fare prigionieri ai diritti, nel modo più cruento, quello che annienta la solidarietà, che determina divisone e iniquità creando una gerarchia di segmenti più o meno meritati, più o meno concessi, più o meno elargiti. Mentre la guerra scatenata è contro tutti i diritti: quelli individuali astratti e contro diritti sociali concreti. Quelli dei cittadini membri di una collettività, lavoratori, madri, padri, ammalati, giovani, vecchi, handicappati, cui è stato progressivamente eroso il sostegno di uno stato sociale, l’istruzione, l’assistenza, la bellezza, la sicurezza. E i diritti astratti, quelli che garantiscono l’essere tutti uguali nelle differenze. Mentre l’istinto del potere conduce alla tutela dei più forti, per nascita, censo, aggressività, immoralità.

Si è davvero meglio che sappiamo che il nemico non è alle porte, è entrato e gli è stata affidata la nostra “salvezza”, mediante quello che ci ha fatto ammalare.

Monotonie

Rosella Roselli

Mi chiedo sempre più spesso che paese sia diventato il nostro. Dopo il ventennio berlusconiano credevo di essermi abituata alle affermazioni improvvide di Silvio e dei suoi nominati e probabilmente anche la Merkel non ha gradito l’essere stata classificata come culona inchiavabile ed essere sbeffeggiata da cucù istituzionali ed altre facezie. Anche per questo il nuovo corso governativo ha imposto ai suoi membri la serietà e la didattica, con grande soddisfazione degli aedi dell’informazione tradizionale, presto conquistati dalla sobrietà dei nuovi figuranti del potere e dalla loro, ormai inconsueta, “presentabilità”. Non più pessime barzellette e promesse mirabolanti mai mantenute, lo stile a quanto pare è diventato tutto.

Purtroppo però -alla faccia della sobrietà- siamo passati direttamente a diktat ed insulti, alternati a pause di silenzio nello stile dell’eterno ragazzo della via gluck. Fornero, Balduzzi, Malinconico, Polillo, Martone -forse dimentico qualcuno- e su tutti Monti, l’uomo in grigio. Instancabile e metodico nei passaggi televisivi, sempre più scoperto negli intenti, non perde occasione, come del resto i suoi colleghi, per ricordare ai cittadini -tele-utenti e contribuenti- che un’epoca si è chiusa, finalmente. E dall’orlo del baratro non possiamo ormai far altro che assoggettarci alla perdita di diritti e garanzie sulla salute, sulla scuola, sulla casa e sul lavoro, meglio ancora se nel convincimento che il baratro l’abbiamo scavato proprio noi per farci finire dentro i nostri figli e nipoti con assurde pretese di contratti da rispettare, di scuole che fossero per tutti, di salute come bene da tutelare, di case nelle quali poter vivere.

Ma quanta arroganza si nasconde dietro a questi continui richiami alle necessità del Paese. Come se fosse scontato, per Monti e i suoi, parlare non più a cittadini ma a fantocci, pedine da spostare sulla scacchiera del profitto, quando occorre e se occorre senza tener conto di quel che c’è dietro a un’esistenza trascorsa nell’insicurezza, nella paura, nel ricatto. E dovremmo, estrema perversione del potere, provare gioia nel passare da un lavoro a un altro per combattere la monotonia. Si, sarà bellissimo peregrinare per uffici di collocamento ed agenzie interinali, compilare curriculum e domande d’impiego, non far più nessun progetto che non sia l’immediata sopravvivenza. Dev’essere davvero un modo per non cadere nelle abitudini, chi avrebbe più tempo per annoiarsi? Nei tempi morti fra un lavoro e un altro potremo dedicarci alla contemplazione di liste e graduatorie facendoci mantenere da anzianissimi genitori o altri parenti che magari siano disponibili anche a ospitarci nei periodi di disoccupazione. Perchè, naturalmente, dopo aver magnificato le mille occasioni di svago e apprendimento che una mobilità sempre più spinta ci offrirebbe, non una risposta è stata data finora sulle possibilità che umanamente e professionalmente avremmo di superare i periodi di vacanza tra una prestazione e l’altra. Come potremmo vivere e dove se ogni tutela, sostegno e garanzia sta per essere stravolta?

Ma davvero siamo pronti ad ingoiare anche questo? Davvero pensiamo che a difenderci da queste continue aggressioni basti un’opposizione sempre più acquiescente? No, credo che per ognuno di noi sia arrivato il momento di rispondere con forza a questo sobrio terrorismo, a questa autentica sovversione della nostra idea di democrazia e di politica. Rompere le litanie del potere e il suo cinismo e riportare al centro del dibattito la ferma convinzione che soltanto combattere per diritti che riteniamo inalienabili ci consentirà di vivere una vita forse monotona si ma che ci consenta il riscatto della riaffermazione della nostra dignità, l’unica cosa oltre l’amore e la passione che rende la vita degna di essere vissuta.

Monotonie

Licia Satirico

Lo smantellamento delle tutele del lavoro, causa di tutti i mali del Paese, passa anche attraverso messaggi subliminali: il posto stabile annoia, deprime e stufa, a tutto vantaggio delle versatili potenzialità esistenziali del precariato perenne. Anni fa Silvio Berlusconi consigliò con occhio ammiccante a una bella disoccupata di sposare un milionario, dimostrando in seguito con fatti, Leporelli e cifre la sua singolare vena di filantropo. Adesso tocca a Mario Monti, che dagli studi di Matrix lancia il suo affondo contro la monotonia della stabilità: i giovani devono abituarsi a cambiare, in una costante metamorfosi creativa che aiuti l’impresa e il mercato.
Il presidente ci dice che l’addio al posto fisso sarebbe pure espressione di equità: la riforma del mercato del lavoro “deve ridurre il terribile apartheid tra chi per caso o per età è già dentro e chi fa fatica a entrare”, trasformando l’ingresso nel lavoro in una fatica per tutti. Per il premier anche l’articolo 18 deve essere contestualizzato, potendo risultare “pernicioso” in alcuni ambienti e “più accettabile” in altri. Monti non ha tuttavia spiegato quali siano i contesti di perniciosità che non ne renderebbero negoziabile la modifica.
Il depauperamento dell’articolo 18 rientra tra le priorità di una missione di governo che non ritiene di doversi occupare di cittadinanza, di bioetica, di riforma della legge elettorale e di regolamenti parlamentari: il mandato “tecnico” si concentra così su un intervento mirato a sradicare i pochi diritti residui di un paese che li ha barattati, confusi e svenduti. Gli interventi “di rigore” per la nostra salvezza si abbattono adesso sul mercato del lavoro, dove già il ministro Fornero annuncia che si andrà avanti anche senza intesa: l’unico ius che riguardi il governo tecnico è quello di licenziare senza (monotoni?) contenziosi giudiziari, costosi reintegri e cali di competitività.
Le incaute dichiarazioni del premier sollevano trasversali reazioni indignate e l’inquietante solidarietà di Brunetta, che ricorda con un pizzico di nostalgia i tempi in cui veniva crocifisso per le sue sobrie filippiche contro fannulloni e panzoni. È indubbio che exploit su miliardari nubendi e panzoni deleteri siano nelle corde di personaggi circensi come molti esponenti di punta del Pdl.
Ascoltando Monti, invece, si ha la sensazione netta di una nota stonata, ossimorica: la monotonia della stabilità viene stigmatizzata da un uomo che ha trasformato in grigiore il suo posatissimo stile di vita, mutando persino se stesso in un cyborg dalla lenta voce metallica. Monti – monotono senatore a vita – è, al tempo stesso, vittima di una protratta noia mortale ed espressione dei suoi pregi intrinseci. La noia di una vita che gli ha consentito di diventare professore, rettore, presidente, commissario europeo, advisor per Goldman Sachs e membro del Gruppo Bilderberg senza soluzione di continuità, facendo però sparire ogni parvenza di sorriso dal suo volto austero: quella di Monti somiglia alla confessione di una vita insostenibile, melanconica come la famosa cena presidenziale di capodanno con tortellini e cotechino.
Non sappiamo in cosa consista l’aspetto vivace di una precarietà che non consente di accendere mutui né di sostenerne il peso, di affrontare il presente come il futuro immediato, di proiettarsi nella lontana epoca in cui forse matureranno gli estremi di una stiracchiata pensione. Né sappiamo, al momento, quali siano le alternative professionali non monotone per i giovani che non trovino ingresso nel mondo del lavoro: diventare spregiudicati colletti bianchi per sognare paradisi fiscali o spalloni per trasportare valuta verso Lugano bella? Immergersi nell’inebriante sottobosco muscoso dei lavori in nero e della criminalità organizzata? Abbandonarsi ai piaceri liberali della disoccupazione, coltivando musica e letture in attesa di tempi migliori? Prendere i voti per non doversi più preoccupare almeno dell’Imu? Fare i tesorieri di partiti estinti intestandosi bonifici per ovviare al nuovo sistema pensionistico? O farsi donare appartamenti da misteriosi benefattori, più numerosi in Italia che nel Vaticano? Le vie del brio sono infinite.


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