Dopo aver brontolato abbondantemente, da buon ligure, per aver dovuto pagare una sovrattassa al postino, a causa dell’insufficienza del francobollo incollato dal mittente, Eugenio Montale sfogliò la piccola raccolta di 9 poesie inviatagli da un nobile siciliano, il barone Lucio Piccolo, esordiente di età imprecisata. La qualità tipografica era talmente sgangherata che al grande poeta tornò in mente la leggendaria prima edizione autoprodotta dei Canti Orfici che Dino Campana consegnò a Papini e Soffici. Bastarono pochi versi a Montale per rendersi conto che si trovava di fronte a un poeta originale e maturo, cantore di un universo personale ricco e discreto, fatto di penombre, ma non depresso; una poesia arcaica, aulica e barocca, eppure fluida, giocata sulle parole; una poesia che, partendo da un’osservazione minuziosa del vissuto quotidiano del poeta, lo proiettava in un ermetico orizzonte magico-simbolico. Montale non ebbe dubbi: al convegno di San Pellegrino Terme, in programma per il luglio di quel 1954, in cui nove letterati affermati dovevano presentare ognuno un esordiente, il suo protetto sarebbe stato lui, Lucio Piccolo. Così, convocò il supposto giovane letterato nella sua casa milanese per farne conoscenza e renderlo edotto sul da farsi. Il barone si fece accompagnare da un servitore e dal cugino, tale Giuseppe Tomasi principe di Lampedusa, il quale non aveva ancora concepito il suo unico e immortale romanzo.
Nonostante la sorpresa nel trovarsi davanti, al posto del previsto giovane esordiente, un suo quasi coetaneo, per di più dai modi e dagli abiti alquanto demodé, Montale confermò l’intenzione di presentare l’attempato poeta al convegno. Così, Lucio Piccolo, sempre seguito dal cugino e dal servitore, fece il suo debutto nel mondo della letteratura ufficiale, suscitando curiosità per la sua natura eccentrica e ammirazione per la sua cultura e la sua abilità letteraria, tanto da guadagnarsi il premio come poeta esordiente più interessante. Durante il lungo viaggio di ritorno in treno verso la Sicilia, i due cugini, com’erano soliti, presero a stuzzicarsi reciprocamente su chi fosse tra di loro il più valido in campo letterario. Fu così che il Principe si ripromise di scrivere un capolavoro che avrebbe dovuto relegare nell’ombra la poesia del Barone, fresca di riconoscimento ufficiale. Detto fatto: nei tre anni che i polmoni esausti da fumatore incallito gli lasciarono da vivere, Tomasi di Lampedusa scrisse Il Gattopardo, alcuni racconti e saggi letterari, ma senza ottenere il minimo riconoscimento ufficiale. Elio Vittorini cestinò la copia inviata ad Einaudi e solo dopo la morte dell’autore, avvenuta nel 1957, il romanzo venne pubblicato a cura di Giorgio Bassani per la Feltrinelli, ottenendo il Premio Strega nel 1959.
Ma la sia pure postuma fama del principe ha già gettato la dovuta luce sugli aspetti della sua singolare esistenza; piuttosto, è d’uopo contribuire a far filtrare qualche timido raggio sull’esistenza del cugino barone e poeta. Nato nel 1903 a Palermo, terzo e ultimogenito di una casata di nobile e antico lignaggio, Lucio Piccolo trascorse la prima metà della sua vita nella capitale siciliana. Non avendo alcuna necessità lavorativa, si dedicò anima e corpo alla letteratura, alla musica e all’esoterismo. Intrattenne uno scambio epistolare col grande poeta irlandese W. B. Yeats, lesse tra i primi in Sicilia Proust e Rilke e si dilettò nella composizione di musiche, definite dal principesco cugino alquanto strambe. Gli anni della vivacità culturale palermitana furono interrotti bruscamente dalla fuga del padre, sciupafemmine e giocatore impenitente, in quel di San Remo, sulla scia feromonale di un’avvenente ballerina. I debiti contratti dal fedifrago costrinsero la madre e i tre fratelli a vendere il palazzo palermitano e a ripiegare in una tenuta di famiglia situata su un poggio dominante Capo d’Orlando e l’arcipelago delle Eolie, nel messinese. Qui, Lucio Piccolo trascorse il resto della vita appartato, in compagnia degli spiriti emanati dalla folta vegetazione, dai luoghi e dagli oggetti quotidiani, ricevendo le sporadiche visite del cugino e successivamente di qualche letterato siciliano attratto dai resoconti del convegno di San Pellegrino che lo avevano visto protagonista. A causa di un voto fatto alla madre, evidentemente bruciata dall’esperienza personale, nessuno dei tre fratelli si sposò, ma per garantire una discendenza, d’accordo con loro, ingravidò una domestica consenziente, con stipula di regolare contratto. In vita pubblicò tre raccolte: Canti Barocchi (1956), Gioco a nascondere (1960) e Plumelia (1967). Si spense nel 1969 e il fratello Casimiro creò una fondazione culturale a suo nome, con sede nella villa di Capo d’Orlando.
Testimonianze e poesie: