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Montecitorio, la curva sud del fascismo

Creato il 01 febbraio 2014 da Albertocapece

dambruoso_lupo_bagarreAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ieri sera sono stata catturata dall’intervista a Alessandro Di Battista, 35 anni, laureato con lode in Discipline delle Arti della Musica e dello Spettacolo (Dams) e con profitto. Professione politico, recita Wikipedia, missione catechista, vocazione attore: ha interpretato con eloquenza ed efficacia il tipo del grillino in doppiopetto, composto, ragionevole, interlocutorio, sbruffone ma con leggerezza, talmente ecumenico da rivendicare il suo passato di sinistra mostrando al tempo stesso figliale e indulgente comprensione per il babbo, esuberante fascista che non dismette la camicia nera.

A sentirlo e a guardare le famose immagini passate in questi giorni in tutti i Tg, con grande dispendio di sdegnate evocazioni di altri squadrismi, a me più che le prestazioni muscolari di efferati manipoli in aule sorde e grigie sono venuti alla mente gli ultrà della curva sud, che se la prendono con l’arbitro cornuto, ed anche le risse nelle file degli aspiranti ad accaparrarsi lo smartphone in offerta da Trony.

È che quando si parla di fascismo in tempi di rimozione e revisionismi, di teste di porco recapitate o confezionate da due sinistri pagliacci su comando di interessi superiori locali e esteri, sarebbe consigliabile non fermarsi alle forme rigorosamente bipartisan – che lo sberlone di Scelta Civica forse per via del nome viene inteso come una civile reazione a uno sgangherato e maleducato ostruzionismo – dei lottatori sul ring, rampognati e ghigliottinati, ma rammentarsi che non si tratta mai solo di violenza esplicita, spintoni, olio di ricino e altre purghe, confino, omicidi cruenti limitati agli oppositori, ma pure treni in orario e bonifiche dell’Agro Pontino.

Si sarebbe bene ricordare che è stato un regime che ha cancellato la rappresentanza e la partecipazione dei cittadini, l’auspicio di una democrazia grazie a autoritarismo, repressione, cancellazione dei diritti e delle prerogative, proibizione delle libertà sindacali, smantellamento dello stato di diritto, bavaglio all’informazione e censura, mettendo tutto nelle mani di un partito unico che ha condotto il Paese a una guerra persa in partenza a fianco dell’alleato tedesco. Sarebbe bene ricordare che si è trattato di un sistema economico basato sulla corruzione, il clientelismo e la consegna del paese nelle mani di un padronato ferocemente avido, che vide nelle imprese coloniali e nell’avventura bellica il motore per profitti nutriti dalla repressione e da sangue. Sarebbe bene ricordare che tutto questo avvenne nel contesto ideologico di un pensiero e un disegno  sovranazionale che mirava alla perdita di sovranità di interi stati e popoli per  l’affermazione di un “governo” unico, favorito in Italia da un re che stava a Quirinale e che firmò senza esitazione ogni infamia, di un ceto dirigente entusiasticamente asservito e accondiscendente al nuovo padronato, quel sistema politico, industriale e militare, di una stampa e una èlite culturale che avevano intrapreso da subito la via dell’autocensura, di intellettuali o aspiranti tali, cresciuti nella fucina del Guf, fervidi firmatari di appelli in difesa della razza, calorosamente convinti che il mito della superiorità razziale avrebbe investito anche la loro inferiorità cerebrale.

Sarebbe bene ricordare per identificare le inquietanti coincidenze con l’oggi, il ripresentarsi ciclico di una patologia che non è solo italiana, ma che da noi sembra attecchire con particolare virulenza. Forse appunto perché non facciamo mai i conti col passato perché abbiamo paura di un presente nel quale la guerra è già stata dichiarata, il Reichstag è già stato bruciato, le leggi razziali vigono da anni, la crisi che incalza viene attribuita   non alle aberrazioni del sistema bancario, eredi degli scandali della Banca Romana, ma al debito eccessivo dello Stato, che c’è ma che è in larga parte effetto di incompetenza politica, dell’evasione e della corruzione, proprio quella stessa che denunciò Matteotti prima di essere ucciso. Abbiamo paura di vedere che come allora è già in corso un processo forse inarrestabile che, grazie a vecchi e giovani marpioni, nuovi furbetti del quartierino, pagliacci irriducibili, monarchi irremovibili, ci porta ad allora, a una deriva autoritaria,   quella necessaria  a fare dell’austerità non la medicina, ma il traguardo, della cancellazione della democrazia non una fase temporanea, necessaria a un fertile decisionismo, ma il fine definitivo, truccando le lezioni, perseguendo l’emergenza come sistema di governo, la fretta come utile dinamismo in modo da sbrigare in tre giorni le faccende mai affrontate in otto anni, la menzogna come prassi politica, la sorpresa a intermittenza come dimostrazione di buona volontà quando ci si accorge del conflitto di interesse, della indole al festoso abuso dei governanti, qualcuno si, qualcuno no, quando l’evasione è quella degli scontrini del bar e non della signora Armellini fidanzata in Tabacci, così che la pronta risposta risiede nello sviluppo di controlli a tappeto così rigidi e generalizzati da ingenerare una fisiologica inefficacia.

Suona stonata nel paese che vanta alcuni primati in tema di dileggio delle regole, di egemonia della criminalità negli appalti e nei servizi, di illegalità diffusa, la ricerca dei responsabili “legali” dell’eclissi della politica, in favore dell’esercizio volgare e sgangherato della sopraffazione, da sottoporre a esemplari punizioni coltre che alla simbolica ghigliottina, come se la voragine nella quale siamo stati precipitati dipendesse dalle esuberanze rozze e riprovevoli dei nostri immeritevoli rappresentanti. Mentre forse  dovremmo interrogarci se il male non risieda proprio nel fatto che in larga parte sono rappresentativi  di molti di noi e ci assomigliano.


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