I due minuti e trenta secondi netti di “Montevideo”, brano tratto da “Piano Reflections” di Duke Ellington (1953) rappresentano, per chi vi scrive, un piccolo capolavoro. In “Piano Reflections” il Duca (1899-1974) abbandona la sua leggendaria orchestra (che diresse dal 1923 fino all’anno della sua morte) per concedersi una rilettura più personale, più intima di alcune sue composizioni quali “Prelude to a Kiss” o “In a sentimental mood”.Ai giorni nostri le Big Band sono un animale praticamente estinto. Dove sono, ormai, locali come il “Cotton Club”, dai camerieri in livrea, gli orchestrali in uniforme, i leggii, le sezioni di ottoni, di ance, i solisti, i ballerini che danzano, elegantissimi? In qualche modo quel mondo è finito da tempo, per ragioni logistiche, pratiche o legate al ‘vil denaro’. E dunque una rilettura in trio dell’opera di Ellington ha il pregio di evidenziare il vero valore compositivo del Nostro ed anche di lasciarci meglio apprezzare le sue doti di pianista.L’orchestra di Ellington fu popolata di solisti straordinari, veri fuoriclasse, indisciplinati ed anche un po’ anarchici, che solo la classe del Duca (discendente di schiavi ma al quale erano state imposte la cura di sé, l’eleganza, la distinzione) riusciva a domare con un gesto della mano. Qui, invece, c’è solo il trio. In “Montevideo” si aggiunge, alla batteria di Dave Black ed al contrabbasso di Wendell Marshall, anche Ralph Colier alle congas. Ed il brano rimbalza come la pallina di un flipper da un ‘ostinato’ blues iniziale ad una sorta di magico ‘afro’, esotico e sensuale. E’ come se, in questi pochi istanti, diverse anime musicali si sfidino in una danza/lotta vorticosa, dove l’anima nera del black blues si confronta con quella afro-latina ma quello che, nel finale, prevale è un senso di estrema, raffinata eleganza ed anche, perché no, di un pizzico di ironia.“Montevideo” rievoca un po’, se posso permettermi il parallelo, le atmosfere torbide e sensuali di “Gilda”, il film di Charles Vidor (1946) dove Rita Hayworth rimbalza anche lei dal blues di “Put the Blame on Mame” al bolero di “Amado Mio”.Insomma vi ho convinti? Sappiatemi dire e… buon ascolto con il Duca.Marco Lorenzo Faustini
Magazine Cultura
I due minuti e trenta secondi netti di “Montevideo”, brano tratto da “Piano Reflections” di Duke Ellington (1953) rappresentano, per chi vi scrive, un piccolo capolavoro. In “Piano Reflections” il Duca (1899-1974) abbandona la sua leggendaria orchestra (che diresse dal 1923 fino all’anno della sua morte) per concedersi una rilettura più personale, più intima di alcune sue composizioni quali “Prelude to a Kiss” o “In a sentimental mood”.Ai giorni nostri le Big Band sono un animale praticamente estinto. Dove sono, ormai, locali come il “Cotton Club”, dai camerieri in livrea, gli orchestrali in uniforme, i leggii, le sezioni di ottoni, di ance, i solisti, i ballerini che danzano, elegantissimi? In qualche modo quel mondo è finito da tempo, per ragioni logistiche, pratiche o legate al ‘vil denaro’. E dunque una rilettura in trio dell’opera di Ellington ha il pregio di evidenziare il vero valore compositivo del Nostro ed anche di lasciarci meglio apprezzare le sue doti di pianista.L’orchestra di Ellington fu popolata di solisti straordinari, veri fuoriclasse, indisciplinati ed anche un po’ anarchici, che solo la classe del Duca (discendente di schiavi ma al quale erano state imposte la cura di sé, l’eleganza, la distinzione) riusciva a domare con un gesto della mano. Qui, invece, c’è solo il trio. In “Montevideo” si aggiunge, alla batteria di Dave Black ed al contrabbasso di Wendell Marshall, anche Ralph Colier alle congas. Ed il brano rimbalza come la pallina di un flipper da un ‘ostinato’ blues iniziale ad una sorta di magico ‘afro’, esotico e sensuale. E’ come se, in questi pochi istanti, diverse anime musicali si sfidino in una danza/lotta vorticosa, dove l’anima nera del black blues si confronta con quella afro-latina ma quello che, nel finale, prevale è un senso di estrema, raffinata eleganza ed anche, perché no, di un pizzico di ironia.“Montevideo” rievoca un po’, se posso permettermi il parallelo, le atmosfere torbide e sensuali di “Gilda”, il film di Charles Vidor (1946) dove Rita Hayworth rimbalza anche lei dal blues di “Put the Blame on Mame” al bolero di “Amado Mio”.Insomma vi ho convinti? Sappiatemi dire e… buon ascolto con il Duca.Marco Lorenzo Faustini
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