Magazine Cinema
Punteggio ★★1/2
C'è un brusio sommesso, un allontanamento dal centro, un prenderestrade non battute che prova a rinfrescare il cinema contemporaneo, o meglio,la produzione visiva giapponese. Il documentario, è di questo genere chestiamo parlando, nella sua infinita varietà e qualità, alta o bassa che sia,forma una sorta di sfondo bianco su cui si accampa la produzionecinematografica "comune". E` una specie di negativo, un contrasto cheha il pregio di indicarci altre potenzialità dell'immagine,un'anti-artisticità; stiamo infatti parlando di documentari con pochissime ozero velleità autoriali, prossimi ai video girati dalle telecamere a circuitochiuso e a quelli amatoriali che riposano ormai negli armadi di quasi ognifamiglia.Capita spesso che alcuni dei pochi teatri indipendenti giapponesirimasti sul territorio, inseriscano, specialmente nel programma mattutino, deidocumentari che solitamente affrontano dei temi abbastanza importanti epregnanti per l`attualità. Dopo aver visto un paio di mesi fa Shōji to Takao, è stata due settimane or sono la volta di Morikiki, un lavoro diretto daShibata Shōhei (già autore dell`interessante Himeyuri) e che potremmocollocare a metà tra il tipico programma educativo dell'NHK rivolto ai più giovanie quello più impegnato sul versante sociale ed ambientale, con la (ri)scopertadel rapporto antico tra uomo e bosco. Lo sguardo della videocamera seguealternativamente dei giovani ragazzi che in diverse zone dell`arcipelagoincontrano altrettanti "saggi", persone che cioè hanno fatto delloro rapporto, quasi sciamanico, con il bosco e le piante una ragione di vita.Un`iniziativa nata da una onlus nel 2002 che porta ogni anno 100 studenti discuola superiore ad incontrare la vita della montagna ed i suoi abitanti. Conosciamo così dapprima una vecchia signora che pianta e coltiva ilgrano saraceno su ripidi pendii di montagna e che introduce la giovanestudentessa ai cicli naturali e agresti bruciando il campo per fertilizzare ilterreno. Poi, un anziano boscaiolo che racconta al ragazzo, insicuro sul suofuturo, le avventure e l`asprezza della vita di 70 anni prima, il rispetto perl'albero che si taglia, o ancora il guardiaboschi che, solitario, si cura deglialberi e deve per forza vivere isolato, in una lotta con sé stesso, la suavolontà e la sua solitudine.
Insomma questo documentario, scarno, essenziale,quasi educazionale nel senso migliore del termine, senza cioè esseredidascalico, ci mostra come le montagne e i boschi che coprono quasi il 70% delterritorio giapponese, non possono essere trascurate. C'è ancora molto che glialberi e la solitudine di queste persone possono trasmettere alle giovanigenerazioni, a maggior ragione in questo momento storico che le vede plasmate equasi invase dall`insicurezza e dalla sfiducia nel futuro. Questo insegnamentonon è un banale ritorno alla natura , che poi in giapponese è un termine convalenze diverse dalle nostre, la tecnologia è ben presente con motoseghe efalciatrici varie, ma piuttosto la necessità di confrontarsi con una sapienzadiversa da quella dominante. Non a caso la parte che più colpisce e su cui più si soffermail regista è quella dell'anziana signora che svela una conoscenza quasisciamanica verso le piante della montagna. Un diverso e antico sapere,accompagnato, cosa forse ancora più importante, da un senso del tempoanch'esso diverso ed estraneo a quello dei giovani ragazzi protagonistidell'esperimento. Visti anche i tragici fatti che recentemente hanno colpito ilGiappone, questo lavoro ha il pregio di liberarci parzialmente dal giogo delpresente e di immetterci in un respiro e in una visione più ampi siatemporalmente che spazialmente. In questo modo il tema, il confronto con ciòche sta di solito ai margini, si aggancia alla perfezione con il ruolo che, conapparente semplicità e anti-spettacolarità, il genere del documentarioinvolontariamente va a ricoprire nella cinematografia nipponica contemporanea. [Matteo Boscarol]
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