Due tra i principali pomi della discordia tra l’Occidente e la Russia rischiano di diventare un nuovo unico fronte di scontro: Mosca ha accusato ieri il Kosovo di dare ospitalità ai ribelli siriani e di permettere loro di addestrarsi nelle attività di guerriglia con l’aiuto dell’Uçk, l’esercito clandestino kosovaro che negli anni Novanta diede filo da torcere a quello regolare serbo nella lotta per l’indipendenza da Belgrado. Il ministro degli Esteri Lavrov ha riferito che una delegazione dell’opposizione siriana si sarebbe recata a Pristina lo scorso mese di aprile, ufficialmente per conoscere da vicino le modalità di organizzazione di un esercito ribelle, ma in realtà – secondo un’informativa dei servizi russi – lo scopo del viaggio sarebbe un vero e proprio accordo tra i miliziani che si oppongono a Bashar al-Assad e quelli che vent’anni fa sfidarono Slobodan Milosevic, che riguarderebbe la creazione di campi di addestramento dove le forze armate del Kosovo dovrebbero trasferire ai siriani il loro know-how in fatto di sabotaggi e imboscate.
Lavrov ha perciò invitato le organizzazioni internazionali che operano in Kosovo (dalla Kfor alla Nato all’Onu) a vigilare affinchè i Balcani meridionali non si trasformino in un campo di addestramento per guerriglieri, poichè “ciò rappresenterebbe un serio fattore di destabilizzazione che potrebbe coinvolgere tutta l’Europa balcanica”.
Il Kosovo rappresenta da tempo motivo di frizione tra la Russia, gli Usa e l’Ue: provincia serba a maggioranza albanese, ha dichiarato la propria indipendenza da Belgrado nel 2008, forte dell’appoggio di gran parte dell’Occidente (Usa e gran parte dell’Unione Europea). Ad oggi sono 89 le nazioni ad aver instaurato relazioni diplomatiche con Pristina, a seguito di un formale riconoscimento dell’indipendenza: tra queste manca appunto la Russia, che, in qualità di principale alleato di Belgrado, continua a considerare il Kosovo come parte integrante della Repubblica Serba.
La Siria invece è un contenzioso che si è aperto di recente, dopo lo scoppio della rivolta contro il regime di Assad, che di fatto ha sì tutti i connotati di una guerra civile, ma evidenzia sempre più il volto di una proxy war, una guerra “‘per procura” che richiama molto i tempi della Guerra Fredda. Fin dall’inizio del conflitto, come è parso chiaro il supporto degli Usa ai rivoltosi anti-Assad, così è stata palese l’attività diplomatica di Mosca per evitare cambi di regime dove il Cremlino può ancora contare su un governo amico.
Damasco resta un partner strategico per la Russia, in particolar modo dal punto di vista politico-militare: il governo di Assad è uno dei principali acquirenti di mezzi militari e sistemi di difesa russi (a gennaio sarebbero stati acquistati 36 aerei da combattimento Yak-130, costati 550 milioni di dollari), e questo rapporto privilegiato permette a Mosca di disporre di un prezioso sbocco sul Mediterraneo grazie al porto di Tartus, dove la marina russa conserva una base di supporto per le navi della flotta del Mar Nero. Proprio là, lo scorso gennaio, una sosta tecnica della portaerei russa Kuznetsov ha provocato reazioni da parte degli Usa, per il fatto che alcuni rappresentanti del governo di Damasco salirono a bordo per ringraziare gli ospiti russi della loro solidarietà verso il popolo siriano.
La proxy war siriana è diventata evidente a febbraio, quando Russia e Cina hanno posto il veto sulla risoluzione Onu che puntava a costringere Assad alle dimissioni: l’ambasciatore russo all’Onu Churkin definì allora “obbligata” la sua scelta, poichè il testo presentato al Consiglio di Sicurezza avrebbe contemplato sanzioni solo alle forze regolari fedeli ad Assad, e non anche per i miliziani delle forze ribelli, come invece richiesto dal Cremlino, e soprattutto non avrebbe escluso la possibilità di un intervento militare contro la Siria, a cui Mosca e Pechino si oppongono fermamente.
Ecco perchè adesso che le situazioni di crisi in Kosovo e Siria vengono inaspettatamente ad intrecciarsi, le conseguenze possono diventare loro stesse imprevedibili.