di Josep Rossi
Bando all’inutile retorica, quella della “guerra umanitaria“, che a Mosca proprio non piace. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha inchiodato così gli Stati Uniti a una soluzione diplomatica per la crisi siriana dopo tre giorni di colloqui avuti a Ginevra con il segretario di Stato americano John Kerry. La sostanza è che Assad deve consegnare entro una settimana l’elenco completo dei siti che conservano armi chimiche. Anche la Cina ha accolto favorevolmente l’accordo. E in serata il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha annunciato che Damasco aderirà alla Convenzione sulla proibizione delle armi chimiche il 14 ottobre.
E’ evidente che delle armi chimiche non interessa nulla né a Lavrov né a Kerry. Esse sono il pretesto per l’intervento militare americano. Ma sono diventate la moneta di scambio in questa tornata diplomatica tra Mosca e Washington. L’accordo raggiunto sulle armi chimiche è in realtà una soluzione temporanea con cui i due paesi hanno preso le misure del futuro multipolarismo globale. Un mondo dove molte potenze, tra cui Russia e Stati Uniti, ma anche Cina, India, forse Brasile e (chissà) l’Unione Europea, si dovranno bilanciare restituendo (sarebbe bello) all’ormai logoro Onu un ruolo centrale per dirimere le controversie internazionali. Crisi economica permettendo.
In questa fase è chiaro che Mosca è in vantaggio. Da quanto tempo non accadeva? Ha costretto la titubante e incerta diplomazia americana a scendere a patti proponendo una soluzione intermedia che potrebbe aprire a futuri accordi per una soluzione congiunta del conflitto. In ballo c’è il controllo del Medio Oriente e delle sue risorse, e Mosca vuole la sua parte. Ha giocato bene le sue carte mettendo Washington all’angolo. Se non fosse che la Russia di Putin è un paese autoritario e violento ci sarebbe da rallegrarsi. E molti se ne rallegrano, tifando per al-Assad (come in passato per Gheddafi) per puro spirito di contraddizione, per becero anti-americanismo (forse ereditato dal Novecento delle ideologie) o per simpatia verso l’autoritarismo (tendenza diffusa nell’Europa della crisi).
La Russia, la Siria, ma anche l’Iran e la Cina, sono un blocco di “nemici” delle democrazie occidentali. O della democrazia in sé. Può essere. Ma che dire degli Stati Uniti che la democrazia la “esportano” a suon di bombe e poi spiano illecitamente i propri (e non solo) cittadini? Dietro il paravento della retorica democratica si assiste a una deriva autoritaria da parte dei paesi che fino a ieri ne erano i difensori. Un discorso che vale per molti stati europei.
Ecco, se in Siria è nato il multipolarismo, la speranza è che i futuri titani della diplomazia (o della guerra) non siano un consiglio di tiranni: potrebbero forse giungere alla pace ma, come dicevano gli antichi, sarebbe un deserto. A quel punto allora, e solo a quel punto, meglio il conflitto.