Magazine Racconti
1.0
Il mio viaggio, come tutti i viaggi, inizia in una stazione, tra gente che non conosco, qualche faccia assonnata, qualche altra arrabbiata o preoccupata, immersa nei mille e mille piccoli ordinari deliri partoriti dalla routine.
E poi c'è anche qualche faccia innamorata: loro si riconoscono dai sorrisi, ma soprattutto dallo sguardo, un po' perso e un po' di sfida, come se gridassero attraverso gli occhi che sono pronti a battersi col mondo, ora.
E sono belli anche se non lo sono, è l'amore a renderli così mi hanno detto, e forse è vero.
Io sono semplicemente curiosa e loro sono quelli che guardo di più, nutrendo con le loro facce, coi loro sguardi e coi loro sorrisi la fame di conoscere quel mondo che finora m'era sempre stato alieno: non mi era mai piaciuto, stare tra la gente. Non mi era mai piaciuto il loro modo di guardarmi, anzi di non-guardarmi, il mio confondermi, mimetizzarmi perfettamente tra di loro. Volevo essere unica. Non lo ero. Volevo un’identità. Non sentivo di averla.
Adesso ho deciso di affrontarli, di guardarli, di conoscerli, come farebbe un etologo con un gruppo di scimmie antropomorfe, o qualcosa del genere.
Gli unici che non guardo mai sono i freak seduti ai margini della strada, a terra, su cartoni pubblicitari di riviste per adolescenti eternamente bagnate, come in una metafora del concetto di antitesi.
Non li guardo, non per qualche forma conscia o inconscia di xenofobia, ma perchè sono quelli che conosco meglio: ho sempre vissuto tra di loro e ho sempre desiderato essere una di loro.
Sono nata 21 anni fa e i medici mi hanno bollata come miracolo: ero l'unica perfettamente sana in una famiglia generata dalle leggi della dominanza genetica e da secoli di incroci tra consanguinei, una famiglia di quelle che nessuno si aspetterebbe di trovare in una tranquilla provincia italiana e soprattutto nel ventunesimo secolo, una specie di versione non cinematografica della famiglia Addams.
Quando il tuo mondo è costellato fin da bambina da nani acondroplasici, focomelici, Elephant Men, quello che hanno chiamato miracolo, la tua normalità, si trasforma in una maledizione: ero io la diversa e non desideravo altro che essere come loro, perdere un braccio, una gamba, o restare perennemente congelata anche da adulta in una statura da bambina.
Io e quelli come me, quelli che la mentalità comune definisce “normali”, eravamo i mostri nel mio mondo.
Ho passato l'infanzia e l'adolescenza a tentare di recidere quelle inutili appendici di carne comunemente note come braccia, guardando con invidia il braccino piccolo e avvizzito che faceva capolino dalla spalla del mio fratellino focomelico, non ci sono mai riuscita, mi hanno sempre fermata in tempo, ma a nulla sono servite le molte settimane della mia vita passate in asettiche stanze d'ospedale o i fiumi di parole degli psicologi che tentavano di convincermi di quanto fossi fortunata per il mio essere nata sana, del dover cercare la mia unicità al di là della forma del mio corpo, e via discorrendo.
Ogni volta riprovavo, mai riuscivo.
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