“Writing about music is like dancing about architecture” (Frank Zappa)
Partiamo dal presupposto che a me leggere recensioni da cima a fondo un po’ m’accascia, figuriamoci scriverle. Che io al massimo leggo giusto le stellette e, se proprio stimo la penna di chi le ha assegnate, mi soffermo sulle sue elucubrazioni. Ma assai di rado. Insomma, se devo scegliere cosa acquistare/ascoltare non mi interessa l’aspetto letterario, altrimenti mi gusterei un libro di Nick Hornby o di Ross Alex, cosa che faccio volentieri, ma non quando tengo la fregola dell’acquisto musicale (ossia assai di frequente). Tra l’altro non sarei un fan di questo blog se non fossi interessato a QUALCOSA D’ALTRO, all’estetica del metallaro (per dirla alla Luca Signorelli, il Guru del metal scritto), alla sensazione che si prova, al percorso che porta una persona a consumare strani oggetti rotondi che riflettono la luce ed emettono note musicali, anziché a lanciarli al cane del vicino che magari la smette di abbaiare anche di notte. Insomma, quello che mi interessa di chi scrive di musica non è tanto il cosa ma il perchè.
Questa è la mia storia di oggi. La storia di un diciassettenne che ogni sabato pomeriggio si fa a piotte il percorso dall’Oratorio al negozio di dischi più metal di Bergamo (R.I.P. – oggi mi pare ci vendono maglioni in cashmere), ed ivi giunto, con le paghette che è riuscito a racimolare, saccheggia ogni musicassetta/ciddì (amore ex aequo per entrambi i supporti, chè il vinile, volente o nolente, è di un’altra generazione) di cui abbia memoria visiva per averne visto la grafica sulle pagine di Metal Hammer o Metal Shock. Finchè arriva quel giorno in cui il negoziante gli fa – “Senti un po’ questo, per me ti piace” e gli passa un paio di cuffie e un cd doppio, dalla copertina lo-fi e dal titolo misterioso: Timothy’s monster. La band ha il solito nome scippato ai film “tettonici” in bianco e nero di Russ Meyer, Motorpsycho. Mudhoney e Faster Pussycat son già stati opzionati. Ascolto. Il primo pezzo è una ballad sottovoce registrata in camera con chitarra acustica, basso e mellotron sovrainciso, che ripete il karma “It feels so good to feel again”. Carino, dico io, sembrano gli Smashing. Il negoziante fa segno di cacciarmi fuori dal negozio e, sorvolando sul mio commento, me li “piazza”. Li compro quasi per fargli un favore, tante sono le lodi sperticate. Sebbene lui sia della primissima ondata, quella che “Eh, ma adesso si sono ammorbiditi”. Poi l’album lo ascolto sì e no due volte e lo lascio lì vicino a Without a sound dei Dinosaur Jr che però mi garba di più.
Salto in avanti di quattro anni, periodo dell’università, rivoluzioni copernicane nell’aria. Passo il cd ad un amico fidato che ama l’alternative e quello, meno di 24 ore dopo, mi INTIMA di riascoltarlo con un ordine diverso, che lui stesso mi scrive su un post-it. Tra le prime della lista c’è questa. Mi immergo. Dipendenza istantanea. Tempo una settimana conosco l’album a memoria, ogni respiro, ogni stonatura, ogni meraviglioso cambio di stile, e soprattutto adoro quel caleidoscopio di generi che il trio riesce a mescolare senza mai sbrodolarsi addosso. Cerco anche di convincere l’amico a fondare una cover band dei MP ma lui ormai è passato a Manu Chao. Chiaramente recupero tutta la discografia presente e passata e comincio a seguire i tre nordici (Trondheim, Norvegia) dal vivo con un’assiduità che solo un fan dei Dead o dei Nomadi può capire, anche più volte all’anno, se capita. D’altronde vivere (e studiare) a Milano ha i suoi bei vantaggi.
In questi vent’anni tondi tondi in cui seguo la band in modo assiduo (posso dire senza problemi di averli eletti in perpetuo nella mia top 10), il loro sound è cambiato innumerevoli volte, dal garage, al noise, al post-grunge, allo stoner, al kraut, al country (con il progetto The Tussler, colonna sonora di un western immaginario, come il pezzo dei Mountain), al retrò, al free jazz, al funk sporco, alla psichedelia, al prog operistico, all’hard rock con forti venature jam. Ecco, quest’ultima pare sia l’ultima “rotta” intrapresa dalla band, che non lesina sulle uscite (quasi un lavoro nuovo ogni anno, tra CD singoli e doppi, LP, EP, split, limited edition, etc), e che ha da poco sfornato Behind the sun, avvalendosi, come per lo scorso album, della collaborazione di Reine Fiske, chitarrista, arrangiatore, ingegnere del suono e spesse volte mastermind di tanti bei progettini quali Landberk, Morte Macabre, Paatos e Elephant9. La presenza del quarto membro si sente e non poco, soprattutto negli intrecci alle sei corde con Snah (che, pure con la sua vocina stridula, è l’incarnazione di Jerry Garcia in acido, ossia nella forma migliore). Bent distorce il basso da copione e la sua voce annegata in fondo mix è una certezza. Sì, è vero con gli anni tende a ripetersi, però è sempre uno spettacolo, quasi musica da vedere, tanto dà la sensazione di essere il timoniere delle dinamiche della band, anche in studio. E poi c’è lui, la pietra dello scandalo: il batteraio Kenneth Kapstad. Questo povero scricciolo che abusa in tutto, rullate, terzinate, cascate di piatti, azzarderei pure un doppio pedale. E’, per farla breve, l’opposto di Gebhardt, che aveva mollato la band nel 2005, perché più interessato al bluegrass e alla toy music. Nell’insieme, però, e alla luce della svolta apertamente hard della band, il nuovo drummer è perfettamente calato nel suo ruolo e, anzi, il suo approccio muscoloso e per nulla trattenuto allo strumento fa il paio con le frequenti svisate (soprattutto dal vivo) della band, che, se prima si dilettava in lunghi droni trasognanti e minimalisti che esplodevano come cluster cosmici, oggi si invola in lunghe cavalcate che anche nei momenti di improvvisazione pura non perdono mai in “battito”e riescono pur sempre a esplodere come cluster cosmici. Qualunque cosa siano i cluster cosmici.Insomma, i norvegesi continuano a fregarsene di tutto e di tutti, seguono solo il proprio gusto e vanno per la propria strada. Ciò è degno di ammirazione. E se magari quel lick di batteria è un sonoro plagio dell’intro di un noto pezzo dei Maiden, loro mica lo nascondono, anzi gli rendono omaggio con un titolo degno dei Tenacious D. Tanta gigioneria, quindi, che di questi tempi, fa solo bene al cuore. Ah, per chi fosse interessato, Il tour 2014, anno in cui cui ricorrono i loro 25 anni di onorata carriera, farà tappa il 2 giugno a Trezzo sull’Adda, il 3 giugno a Roma, il 4 giugno a Torino e il 5 giugno a Cesena. Andate a vederli. A parte i volumi a livelli Lemmy-DeMaio, non ve ne pentirete.