Magazine Cultura
Una fotografia ipnotica e nitidissima. Straordinari passaggi da una scena all'altra, talmente belli da sembrare pennellate in un'opera d'arte. Giochi di luce e buio, zoom e fermi immagine sulla natura in fiore e su spruzzi di sangue che sporcano i volti e il verde dell'erba. Angoscia e meraviglia che crescono insieme, in un film non bello, ma atipico, ansiogeno, sublime: che non dà pace. Vado raramente d'accordo con i critici cinematografici e, senza vergogna, ammetto di non essere mai stato attirato dai film di Chan – wook Park, di cui si ricordano con elogi continui soprattutto Thirst, Oldboy, Lady Vendetta. Non sono abbastanza maturo per apprezzare quel tipo di cinema e non ho la pazienza per assorbirlo e comprenderlo fino in fondo. Stoker, tuttavia, prima esperienza americana del regista, è un film estremamente affascinante e intrigante, di grande atmosfera e raffinatezza. Riesce semplicemente a stregare, a renderti parte dell'ossessione e di una lucida e ripugnante follia. E' oscuro, elegante, ansiogeno, grottesco, sottilmente malato: tragicamente bello. Tutto merito di un talento registico palese, sorprendente, pauroso e di una colonna sonora che – insieme alle immagini che scorrono – si libra in picchi di struggente drammaticità, e di un cast che lascia senza parole e incantati perfino davanti al panico dilagante. La storia ruota intorno a un triangolo familiare, a un lutto che ha lasciato una famiglia apparentemente perfetta in balia di segreti inconfessabili. Parla di un'innocenza che muore. Dopo l'improvvisa morte del padre, la diciottenne India si trova a vivere insieme a una madre algida ed incostante e ad uno zio sbucato dal nulla, ma che dietro di sé porta una scia di sparizioni e misteri irrisolti. Interpretato dal bravissimo Matthew Goode, lo zio è bello e crudele come Lucifero, l'angelo ribelle: una figura sorniona e carica di ombre che porta in casa la seduzione, la passione, le cicatrici di un passato mai condiviso con gli altri. Per Goode, che ho sempre allegramente sottovalutato, è una delle migliori prove di sempre. La madre di India, invece, è Nicole Kidman: bellissima, bravissima e gelida come solo lei sa esserlo. A volte, sembra non essere di questo mondo. Altera, sensuale, perfetta, una donna alienata e distante: una cattiva mamma per un'attrice sempre e comunque fantastica. La chirurgia plastica alla quale anche lei ha ceduto – ma perché?! - non ha intaccato la sua espressività e il monologo finale che pronuncia è straziante, sentito, viscerale. La vera anima del film, però, è la giovane India, interpretata da una Mia Wasikowska in stato di grazia. Una prova da premiare: psicologicamente ed emotivamente carica, complessa, tormentata, che lei personalizza con le sua fattezze da eterna bambina e con uno strano, malizioso candore. I suoi occhi enormi ti spogliano, semplicemente. Un film tesissimo, scandito da omicidi e dal suono sincopato del pianoforte, da fantasie e da eredità tramandate nel sangue. Una pellicola dalla bellezza acerba e assassina.
All'inizio di ogni anno, c'è sempre un autore che, dalle librerie, viene a farci compagnia al cinema: Nicholas Sparks. Dopo aver prestato molteplici volte le sue storie d'amore al grande schermo, a un anno esatto dall'uscita di Ho cercato il tuo nome, l'ho ritrovato per caso con questo Safe Haven, trasposizione del romanzo edito in Italia col titolo Vicino a te non ho paura. I produttori italiani, di solito, non ci mettono mai troppo tempo a riproporre le pellicole “con il macchio Sparks” qui da noi, ma su questo suo ultimo film, uscito negli USA a gennaio con un discreto successo, finora tutto tace. Strano, perché alla regia ritroviamo il buon Lasse Hallmstrom – già regista di Dear John e di altri successi come Chocolat e Hachiko – e perché la trama sintetizza tutti gli elementi proposti nei precedenti film e nei precedenti romanzi dell'autore. Katie è una donna in fuga e in cerca di un nuovo inizio. Un poliziotto la bracca con la stessa determinazione di un segugio e, con un nuovo taglio di capelli e un nuovo nome, la protagonista è in cerca del suo porto sicuro. Il pullman che doveva portarla ad Atalanta, fa sosta in un piccolo ed affascinante villaggio di pescatori e consolidate tradizioni, dove tutti si conoscono, ma dove un viandante stanco è sempre bene accetto, proprio come la calorosa ospitalità del Sud prevede. Katie trova lavoro come cameriera, un piccolo cottage nel bosco, e l'amore di Alex – un giovane vedovo, con due bambini a carico, che gestisce un negozietto d'alimentari affacciato sul mare. Entrambi meritano di amare ancora, entrambi meritano di tornare a vivere. Ma il passato, scopriranno, è una bestia dal quale non si può sfuggire. Solo stando insieme possono sconfiggerlo... Verissimo, lo so. La trama è già sentita, e Sparks non sembra aver rinunciato a quel solito velo di tristezza che è sempre stato proprio delle sue storie. Tra i protagonisti aleggia l'ombra della solita malattia e tra loro e la felicità sono stagliati i soliti ostacoli. Abbiamo la solita cornice suggestiva, accentuata anche da una bella fotografia, i soliti personaggi: più o meno giovani, dal passato complicato, con un nucleo familiare da ricostruire da capo... innamoratissimi. E, sinceramente, questa volta sono perfino troppo belli per essere veri! Tutta questa premessa per dire che, nonostante il solito tutto, come al solito, Nicholas Sparks sa far vibrare le corde giuste. Averci a che fare spesso potrebbe anche venire a noia, ma ritrovarlo ogni tanto fa effettivamente bene. I maestri del thriller hanno le loro regole, lui ha le sue. Sono già consolidate, eppure funzionano: sentimenti grandi fatti di gesti semplici, semplici; niente dichiarazioni eclatanti, niente forzatura da cinema. Parlerei quasi di realismo, se solo la realtà fosse così. Sicurissimo di sé dopo tantissime esperienze con i segreti del cuore e del dramma, Hallmstrom ci mostra paesaggi splendidi, momenti troppo perfetti per essere veri e un intreccio che mescola Via dall'incubo con Ricominciare a vivere. Affiatati, belli e convincenti, nonostante la lieve differenza d'età, Josh Duhamel (Tre all'improvviso) e Julianne Hough (Footloose, Rock of Ages) sono i protagonisti di questa storia. Lui, tra bionde e romanticismo, è sempre a suo agio. Lei, per la prima volta lontana dal musical, mostra che, nonostante la sua avvenenza, sta bene anche in altri contesti, e non solo nelle parate di Barbie in cui, fino a questo momento, l'avevo immaginata. Safe Haven non è nulla di nuovo, ma se avete cali di dolcezza e d'affetto, soprattutto per mezzo di un magico colpo di scena finale, potrebbe fare al caso vostro. Ogni tanto, dobbiamo a noi stessi la visione di questi film. Il nostro cervello, sotto sotto, ci perdonerà: se lo stacchiamo per un'oretta e mezza, anche lui starà meglio. Come noi dopo la visione di Safe Haven.
Se vivi negli anni '50 e sei una giovane donna, puoi avere solo un sogno: fare la segretaria. Un lavoro moderno, di grande responsabilità, con l'accesso facile ai pettegolezzi e ai segretucci di tutti, che porta la bionda ed imbranata Rose nello studio dell'autoritario Louis, un capo esigente e normativo, ma che, tuttavia, crede ciecamente in lei. Una convivenza forzata li porterà a vivere sotto lo stesso tempo, la preparazione per un campionato mondiale di dattilografia li renderà sempre più vicini. Professionalmente e sentimentalmente. Le commedie romantiche: come le fanno i francesi, nessuno mai! Tutti pazzi per Rose è un esempio perfetto di garbo, grazia, eleganza, brio. Una fiaba moderna (o quasi) dai color confetto, dal lieto fine assicurato e di una leggerezza che fa star bene al primo sguardo. E' apparentemente semplicissimo, ma non lo è poi tanto. Dietro ogni scena c'è una citazione, dietro ogni vestito o scenario un rimando alto e nostalgico: la bellezza semplice e intramontabile di una Audrey Hepburn, un dosaggio di colori intensi e contrasanti che ricorda Hitchcock, un amore che strizza l'occhio al bellissimo My fair Lady. Un film d'altri tempi, dunque, scandito dal ticchettio dei tasti di una macchina da scrivere – io le trovo splendide! Devo riesumare quella dei miei della soffitta... -, da risate e sorrisi dolci e dalle prove attoriali di Roman Duris e Déborah François. Il primo – una mascella pronunciata e un sorriso asimmetrico – dopo averci fatto divertire con Il truffacuori e tornare indietro nel tempo con Arsenio Lupin, si conferma uno degli attori d'oltralpe più bravi e versatili. La sua partner, invece, che non avevo mai visto prima sullo schermo, unisce perfettamente un fascino ingenuo e un imbarazzante sbadataggine in una sceneggiatura che la vuole “principessa” e “sognatrice” della storia. Sarò di parte, ma lo consiglio. Adorabile.
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